mercoledì 9 dicembre 2009

SEBASTIAN CLAW: L’Evocazione

“Iah! SHUB-NIGGURATH!”
“Grande Capro Nero dei Boschi, io Ti chiamo!”
L’uomo con la veste gialla s’inginocchio davanti alle alte pietre. Le braci rosse gli illuminavano il volto.
“Rispondi al grido del tuo servo che conosce le parole del Potere!”
Con la mano compose un gesto.
“Sorgi, io Ti dico, dal Tuo sonno e vieni con altri mille!”
Un gesto ancora.
“Io faccio i Segni, io pronuncio le Parole che aprono la Porta!”
“Vieni, io Ti dico, io giro la Chiave, Ora! Cammina ancora una volta sulla Terra!”
Si avvicinò alle braci…
BANG!
Ma fu lo shotgun di Claw a chiudere l’evocazione.


101 parole – Jonathan Macini

mercoledì 18 novembre 2009

SEBASTIAN CLAW: Discesa verso l'oblio



Dall’unica finestra di questo dannato monolocale, entra la promessa di un’altra notte bastarda. Il cielo rimane grigio, incolore, ma la dilatazione del giorno è fin troppo percepibile. Siamo alle ore che precedono le ombre, ma non accenderò la lampada della scrivania. Rimarrò sul mio letto, immobile, ad osservare il piombo nel cielo scurirsi, diventare antracite, finché le tenebre non m’inghiottiranno. È tutto quello che desidero per stasera…

La bottiglia è già arrivata a metà. Il corpo sprofonda dolcemente nel materasso troppo soffice, ma è una bella sensazione. Mi fa sentire coccolato, protetto, come un arnese nella sua confezione. Lo shotgun giace al mio fianco. È carico. Ormai non riesco neanche ad andare in bagno senza di lui. Ne accarezzo il grilletto. Un colpo e via, tutto finito. Il sipario si chiude. Che se la vedi il mondo contro quelle schifezze. Io ho già dato tutto quello che avevo…

Un lungo sorso con la testa piegata all’indietro, chiudendo gli occhi, il liquido che mi scorre attraverso i denti, lo sento corrodermi, nel fisico e nella mente. Scardina gli incubi che infettano la ragione, addobbandoli di assurdi festoni. Un rituale scaramantico che mi trascina verso il basso. Riapro gli occhi. La stanza è sempre più buia. I rumori che vengono da fuori sono l’inutile canzone di una civiltà senza speranza, il canto funebre dei parassiti di un pianeta sul quale i Grandi Antichi torneranno presto a regnare. Le auto in corsa, il suono dei clacson, il trambusto nei cantieri di periferia, la stazione ferroviaria. Sintomi di vite prive di qualsiasi rilevanza, che arrancano sopra luride fognature nelle quali scorre già il seme della follia.

Afferro la bottiglia con più forza. Il sacchetto di carta che la riveste emette un suono rassicurante tra le mie dita. Mentre bevo guardo il corpo di un uomo che si avvelena lentamente. Fin dove riusciranno a trascinarmi queste povere membra? Sono loro che fanno il lavoro sporco. È vero, c’è ancora quel fuoco che arde, il motore di questa macchina di morte, il pretesto per non abbandonarsi completamente al delirio. Ecco cosa ne è stato di Randy Coleman. La trasformazione è ormai completa. Una creatura di carne con un fucile a canne mozze come appendice, estensione del suo corpo, organo vitale fatto di ferro e fuoco. Un intento irrazionale, forse più folle delle follie che camminano nell’oscurità, lo muove come un angelo vendicatore. Vorrebbe farla finita ma non può. Qualcosa lo trattiene. C’è ancora molto lavoro da fare…

La bottiglia è quasi a fine. L’oscurità è ormai padrona. No, non accenderò la luce sulla scrivania. Lascerò spengere gli ultimi suoni del giorno, immaginandomi la gente che torna alle proprie case, moglie, figli, progetti, fede… Nessuna differenza tra loro ed i piccoli insetti che infestano le cantine e le soffitte. Ragni, termiti, blatte…
Vieni oscurità. Vienimi a prendere. Fammi dormire, ti prego. Almeno stanotte, fammi dormire…

Jonathan Macini

sabato 7 novembre 2009

SEBASTIAN CLAW: Nessuna Speranza



Ieri notte sono tornato a casa del professore. Ero ubriaco, e ricordo appena quello che è accaduto. Cercherò di raccontarvelo, prima che l’oblio cali inevitabilmente sui mie ricordi (ancora molto confusi), ed il sogno si mischi con la realtà. Ormai non credo più a nulla, ed anche le vittime di questo shotgun sono diventate una magra consolazione. Ho ucciso di nuovo, ho ucciso qualcosa che solo con molta fantasia potreste considerare vivo, eppure gli incubi sono venuti lo stesso, più orribili che mai.

Ho fermato la macchina nel solito piazzale. Mancava poco al tramonto. Il cielo era grigio e il mondo incolore. La villetta era immersa nel silenzio e nell’ombra. Ricordavo bene quella luce che avevo visto mesi prima, quel suono orripilante di flauti e tamburi. Niente di ciò disturbava adesso quel pacifico panorama rurale. Mi sono acceso una sigaretta. Sapevo che era una scusa per guadagnare tempo. Guardavo la finestra del piano di sopra, le persiane spalancate, le tende tirate. Un occhio su un pianeta alieno. La sigaretta era arrivata alla fine. Che fare? Riaccendere il motore, girare l’auto e tornare a casa. Si, era quello che desideravo più di ogni altra cosa. Eppure sapevo in cuor mio che se non avessi fatto quello che mi ero premesso di fare, non sarei riuscito a dormire un’altra notte.

Sono sceso, ho gettato il mozzicone nella ghiaia del piazzale, due corvi spaventati sono volati via, oltre il tetto della villetta. Ho caricato il fucile e ho coperto lentamente la distanza che mi separava dall’ingresso, una ventina di passi, non di più. Superato il cartello di vendita affisso dall’agenzia immobiliare mi è sfuggito un sorriso. Chi poteva essere così pazzo da andare ad abitare in un posto del genere? Ma forse erano le mie fantasie, o la mia consapevolezza, a trasfigurare quella graziosa villetta di provincia, che aveva saturato le mie notti, preso possesso dei miei sogni, trasformato la mia vita. Per questo ne provavo orrore. Forse a una persona normale sarebbe piaciuta… Eppure erano passati tre mesi, e quel cartello stava ancora lì.

La porta era chiusa a mandata. Le persiane del piano terra erano tutte sbarrate. Rimaneva solo l’ingresso sul retro. Con lo shotgun ben puntato davanti a me, mi sono portato sul retro dell’edificio. Il portico posteriore di affacciava su uno sconfinato campo d’erba’erba alta che si perdeva in un declivio verso la città. Le luci di Providence incominciavano ad accendersi. Anche la porta sul retro era chiusa a chiave, ma un proiettile a bruciapelo avrebbe fatto saltare in aria il chiavistello. Esplodere un colpo in collina avrebbe insospettito qualcuno, anche se la casa più vicina era a un quarto di miglio, così ho avvolto la canna del fucile nel cuscino di una sedia a dondolo dimenticata nell’angolo della veranda. Ho fatto fuoco, spargendo piume e schegge di legno un po’ dappertutto. Un attimo dopo ero dentro la cucina, un luogo ordinato ma ricoperto da un denso strato di polvere. Un odore da voltastomaco mi ha investito. Difficile descriverlo. Dolce e avariato, marcio e pungente. Nel silenzio assordante della villetta, una sensazione assurda ma inequivocabile si è impossessata delle mie membra, paralizzandomi dalla testa ai piedi. Nella casa viveva qualcosa.

Dietro infiniti veli di grigio il sole stava tuffandosi oltre l’orizzonte. Non potevo farmi sorprendere dalle tenebre, non con quella cosa che si aggirava là dentro. Per fortuna mi ero portato dietro la mia medicina. Ho appoggiato il fucile sul tavole ed afferrato la fiaschetta dalla tasca interna della giacca. Il whisky di contrabbando non è un granché ma fa il suo dovere. Un lungo sorso e le membra si sono sciolte, un altro sorso ed ero pronto a salire di sopra.

Non ce n’è stato bisogno. Riafferrato lo shotgun, ho attraversato la porta della cucina che dava su un corridoio. A destra si apriva il salotto, a sinistra la libreria, più avanti l’atrio e la rampa di scale. La poca luce esterna filtrava dalle persiane, ma era impotente di fronte all’oscurità che albergava da mesi dentro la casa. I miei occhi facevano fatica ad abituarsi. L’impianto elettrico era staccato. L’unico riverbero che mi aiutava a procedere senza andare a sbattere addosso a qualcosa era quello che proveniva dietro di me dalla cucina. Il bisogno di un altro goccetto mi ha fatto fermare. In quel momento ho avvertito lo strascichio. Veniva da sopra, lento, appiccicoso, grondante, umido. Un rumore di vischiosità viva.

In quel momento qualcosa è scattato dentro me. Ricordo solo brandelli dei minuti successivi. I passi lenti ed esitanti verso la rampa di scale, il rumore viscido che avanzava, i contorni vaghi di una creatura deforme che scendeva i gradini, e poi il terrore. Dopo il colpo sparato nel porticato mi ero completamente dimenticato di ricaricare lo shotgun. Freneticamente ho afferrato due proiettili dalla tasca, ma riuscire ad inserirli nel caricatore con le mani che mi tremavano non è stato facile. La creatura stava avanzando verso di me molto più velocemente di quanto pensassi. Non avevo coraggio di guardare. Ho chiuso il caricatore e ho mirato alla cieca, seguendo un istinto tutto mio. Un boato inatteso è esploso nell’ampio ingresso della villetta. Non era finita, non per me. Altri due colpi. Bang! Bang! Ma ho continuato a guardarmi le scarpe mentre sparavo, incapace di soffermarmi su quell’essere che non sarebbe dovuto esistere.

I colpi erano finiti. I bozzoli giacevano sul pavimento. Dieci, dodici. Non so. Il rumore vischioso continuava, ma era diverso. La creatura non si muoveva. Come prova poteva bastarmi. Non volevo assicurarmi di niente. Non volevo guardare. Sono corso fuori, ed è tutto quello che ricordo. Non so come sono riuscito ad arrivare all’auto, ad accendere il motore e fare manovra. Percorrere le strade ormai buie di Providence sembrava un sogno nel sogno. Per un attimo la sensazione di normalità mi ha sedotto. Avrei voluto abbandonarmici, ma come potevo continuare ad ingannarmi.
Nessuna speranza per chi conosce la verità. Nessuna speranza.

Jonathan Macini 2008

lunedì 2 novembre 2009

IL DIAVOLO IN ME

Cosa si nasconde dietro quella porta?
Lui.
Mani ghermenti, sudore rancido, petto villoso, alito alcolico.
Mio padre.
La forza bruta che afferra, piegando al suo volere.”Piccina, vieni qua. Tuo padre ha bisogno di coccole…”
No, quello è stato tanto tempo fa. Adesso dietro la porte c’è lei, la donna che sono diventata. È venuto il momento di farle visita. Si, proprio adesso, mentre punta quella nove millimetri alla testa del fottuto bastardo.
È una brava persona. Non lo farebbe mai…
…almeno che non le dia una mano io.
“Ciao bambina, ti ricordi? Ti ricordi quello che ci ha fatto?”
Uno sparo!

Jonathan Macini - 101 Parole

martedì 27 ottobre 2009

SEBASTIAN CLAW: Melvin



Melvin era una zecca, come si dice in gergo. Tu lo pagavi e lui ti dava le informazioni, succhiate direttamente dalle profondità più recondite ed aberranti della razza umana. Niente di strano, se si stesse parlando di informazioni normali. Ma Melvin non era normale… Chiunque avesse assistito a metà della roba che è passata davanti ai suoi occhi, si sarebbe fatto un tuffo di diversi metri, tanto per non pensarci più. Capite quello che vi voglio dire…

Sono due mesi che viaggio tra Providence ed Arkham. L’aria di Boston mi ha già cambiato. Le cose sono e le cose restano. Chi non ha più il velo davanti agli occhi è bene si cerchi un nuovo pretesto per andare avanti. Io ce l’ho… un bel po’ di piombo da commissionare. Il lavoro è solo all’inizio…
Melvin, vi dicevo. Un vecchio pazzo con la gobba, la bava alla bocca e la cute piena di chiazze glabre. Si aggirava nel parco di Arkham, proprio dietro la Miskatonic, insieme a un vecchio cagnolino cieco, un incrocio poco piacevole che non la smetteva mai di abbaiare. Lui diceva che gli teneva lontane le creature… Idiota!


L’ho conosciuto quasi per caso circa un mese fa. Uscivo dalla biblioteca dell’università e me lo sono ritrovato tra i piedi. Aveva adocchiato i libri che tenevo sottobraccio. “Se hai bisogno di qualche informazione, chiedi pure… Faccio dei buoni prezzi…” mi disse. Poi il cagnolino incominciò ad abbaiare, e lui se ne tornò verso il parco, con uno strano ghigno sul volto. Quella notte tornai a Providence, e continuai a pensare a quel vecchio. Mi ci volle mezza boccia di bourbon per riuscire a prendere sonno, e non fu facile trovarla. Il giorno dopo, con la testa appesantita dall’alcol ed in bocca un sapore non piacevole, iniziai a consultare i due testi per i quali avevo viaggiato più di cento miglia: la pubblicazione Bridewell di Culti Innominabili e un libro di poesie di Justin Geoffrey intitolato Il Popolo del Monolito. Il professor Richardson ne accennava nei suoi appunti. No, non quelli di casa sua. Non ci sono più ritornato dopo quella notte, ma ho fatto un salto nel suo ufficio, in città. A parte un paio di note sul retro dell’agenda, non ho trovato nulla che riguardasse il mistero della sua scomparsa. Mi faccio ridere, ancora non riesco a chiamare tutta questa follia per il suo nome… eppure che nome potrei mai dargli? Occultismo? Mitologia? Potrei parlare semplicemente di deliri, ecco cosa… No, non sono curioso. Voglio solo riuscire a dormire la notte, senza l’aiuto del vecchio whisky.

Ho letto i due libri ma non ho approfondito. La maggior parte di quella roba non riesco neanche a capirla. Il resto invece mi attanaglia le budella, e mi fa venire sete. Ma stavo cercando una traccia, un segno. Non l’ho trovato, così li ho riportati ad Arkham. È stato allora che ho rivisto Melvin, ma questa volta sono stato io ad avvicinarmi a lui. Appena uscito dalla Miskatonic ho sentito l’inconfondibile verso di quel brutto meticcio. Mi sono avvicinato agli alti platani che delimitavano l’inizio del parco. L’ho intravisto su una panchina, curvo ed immobile. Sembrava stesse dormendo, così mi sono avvicinato lentamente, e lui si è rivolto a me senza neanche voltarsi. La sua voce era vecchia e gracchiante. “Melvin fa degli ottimi prezzi… se si vogliono conoscere gli abomini della città…”
“Di che diavolo stai parlando?”


È iniziato così, ed è andato avanti per più di un mese. La strage alla baia di Arkham, il mattatoio alla fattoria Renfield, l’omicidio Portman. Prelibati sonniferi per il sottoscritto. Non sto a raccontarvi le nefandezze perpetuate da queste creature (non posso certo chiamarli uomini!). Ne hanno parlato i giornali e hanno parlato anche di me. Ovviamente non sanno chi io sia, né che relazione ci sia tra le tre carneficine e l’efferata morte di un barbone di Arkham, trovato ieri notte appeso ad un cancello del parco. Le sue viscere, unite alle cervella del suo cagnolino, formavano un complicato disegno ai suoi piedi. Nessuno conosce il senso di tutte queste morti. O almeno me lo auguro.

Non ho paura della polizia. Se mi dovessero beccare mi metterei lo shotgun in bocca senza esitare un attimo. Vi posso assicurare che tutta quella gente si meritava molto di più di una morte veloce come quella che ho riserbato loro. No, ho paura di altro, degl’incubi tentacolari che stritolano, privandoti anche del tempo per toglierti la vita. Una follia eterna, accompagnata da un imponderabile suono di flauti…
Per fortuna Providence sembra ancora abbastanza tranquilla… se ci si tiene lontani dalla casa del professore.


Povero Melvin. I suoi prezzi erano davvero buoni. Ho messo da parte del buon piombo per vendicarlo. Ma ho bisogno di una nuova zecca adesso. Domani parto per Boston. Ho un contatto. Ve ne parlerò…
Addio Melvin. Addio cagnolino. Quasi quasi vi invidio…

Jonathan Macini - 1995

lunedì 19 ottobre 2009

SEBASTIAN CLAW: La nascita


Gli Antichi furono, gli Antichi sono, e gli Antichi saranno. Dalle stelle Oscure Essi vennero prima che l’Uomo nascesse, invisibili e tremendi. Essi discesero sulla Terra primordiale. Sotto gli oceani Essi attesero per lunghe epoche, fino a che i mari eruttarono la terraferma, ed Essi brulicarono in moltitudini e la tenebra regnò sulla Terra. Ai Poli gelidi Essi eressero possenti città, e in luoghi elevati i templi di Coloro che la natura non conosce e che gli Dei hanno maledetto. E la stirpe degli Antichi ricopri la Terra, e i Loro figli perdurarono nei secoli. Gli Shantak di Leng sono l’opera delle Loro mani, i Ghast che dimorano nelle cripte primordiali di Zin li riconoscono come loro Signori. Essi generarono i Na-hag e i Magri che cavalcano la Notte; il Grande Cthulhu e Loro fratello, gli Shoggoth Loro schiavi. I Dhole rendono Loro omaggio nella valle tenebrosa di Pnoth e i Gug cantano le Loro lodi sotto le vette dell’antica Throk. Essi hanno camminato tra le stelle ed Essi hanno camminato sulla Terra. La Città di Irem nel grande deserto Li ha conosciuti; Leng nel Deserto Gelato ha visto il Loro passaggio, la cittadella eterna sulle cime velate da nubi di Kadath la sconosciuta porta il Loro segno.
Pervicacemente gli Antichi seguirono le vie della tenebra e le Loro bestemmie erano grandi sulla Terra; tutto il creato s’inchinava sotto la Loro potenza e Li riconosceva per la Loro malvagità. E i Sovrani Primigeni aprirono gli occhi e videro le abominazioni di Coloro che devastavano la Terra. Nella Loro ira Essi levarono la mano contro gli Antichi, arrestandoLi nella Loro iniquità e scacciandoLi dalla Terra nel Vuoto oltre i piani dove regna il caos e non dimora la forma. E i Sovrani Primigeni posero il Loro sigillo sulla Porta e il potere degli Antichi non prevalse contro la sua potenza. L’orrendo Cthulhu si levò allora dal profondo e si scagliò con immensa furia contro i Guardiani della Terra. Ed Essi legarono i suoi artigli velenosi con potenti incantesimi e lo rinchiusero nella Città di R’lyeh dove, sotto le onde, egli dormirà il sonno della morte sino alla fine dell’Eone. Oltre la Porta dimorano ora gli Antichi; non negli spazi noti agli uomini, bensí negli angoli tra essi. Al di fuori del piano della Terra Essi indugiarono e sempre attendono il tempo del Loro ritorno; perché la Terra Li ha conosciuti e Li conoscerà nel tempo a venire. E gli Antichi tengono l’immondo e informe Azathoth in conto di Loro Maestro e dimorano con Lui nella caverna al centro di tutto l’infinito, dove egli morde famelico il caos supremo tra il folle rullo di tamburi nascosti, il pigolio stonato di orrendi flauti e il grido incessante di dèi ciechi e idioti che eternamente vagano e gesticolano. L’anima di Azathoth dimora in Yog-Sothoth ed egli chiamerà gli Antichi quando le stelle segneranno il tempo della Loro venuta; perché Yog-Sothoth è la Porta attraverso la quale Quelli del Vuoto rientreranno. Yog-Sothoth conosce i labirinti del tempo, perché tutto il tempo è per Lui una sola cosa. Egli sa da dove vennero gli Antichi nel tempo passato e da dove verranno ancora quando il cielo sarà completo. Dopo il giorno viene la notte; il giorno dell’uomo passerà, ed Essi regneranno dove regnavano un tempo. Come un’abominazione voi Li conoscerete, e la Loro malvagità contaminerà la Terra.

Pioggia, sempre pioggia. Questo maledetto cielo di febbraio non sa dirmi altro. Il drappo su un orrenda verità è stato calato, e le pesanti nuvole che ricoprono questa assurda città ce lo ricordano. New York non funziona.
La grande mela è come sorda agli stridenti richiami dell’ombra; troppo impegnata ad ingrandirsi e a fagocitare se stessa, troppo corrotta ed incurante di tutto ciò che non è fine a se stessa. Ho affittato questo monolocale a Providence, nella speranza di ritrovare il mio vecchio compagno di collage, il prof. Richardson. Le ultime notizie riguardo a lui risalgono a una settimana fa, il giorno in cui mi è stata recapitata la lettera che conteneva il manoscritto qui sopra riportato. Il professore era impegnato in studi bizzarri di cui mi aveva accennato alcuni dettagli. Poi è arrivata la lettera, e quell’articolo in terza pagina del Washington Post. Il prof. Richardson era scomparso!!!

Non so se questa sia verità o follia, ma da ieri notte non riesco più a credere a niente. Sono andato a casa del professore, una villetta isolata poco fuori Providence, e dopo aver fermato l’auto nel piazzale davanti all’entrata e aver spento i fari, mi sono accorto di quella luce. Non era un riflesso, e nessuna sorgente luminosa conosciuta poteva riprodurre quel colore, tra il verde, l’azzurro ed il nero. Usciva dalle imposte sbarrate della villetta, un ritmo pulsante che nella mia mente sembrava accompagnato da tamburi e da flauti. Ho atteso minuti che sembravano ore, ma non sono riuscito ad uscire dall’auto, bloccato al sedile da un terrore alieno. Adesso sono qua, seduto davanti allo scrittoio del monolocale, privato di una notte di sonno, ed osservo il drappo grigio del cielo chiedendomi se la follia non sia davvero il migliore dei rimedi.

Guardo mestamente indietro, eppure non mi vergogno dei miei rimpianti. Sarebbe stato bello conoscere una brava donna, magari avere dei figli. Ho scelto la via più facile, rapito dal miraggio di una brillante carriera lavorativa. Niente di meglio che di fare l’avvocato nella città che ricopre d’oro gli avvocati. Adesso tutto ha molto meno senso. Adesso tutto sfuma tra le ombre tentacolari di una notte imperitura. Niente è più come prima, e non lo sarò neanche io.

Randy Coleman non è più il mio nome, così come New York non è più la mia città. Forse il mio destino è già segnato, ma cercherò con tutte le mie forze di rimandarlo al domani più lontano, insieme all’avvento di questo perverso disegno. Il mio nome è Sebastian Claw. Ho solo un fucile a canne mozze per amico, e per adesso mi basta. Providence è la mia nuova città, l’inizio di una nuova vita. Una vita che ha già un finale, ed appartiene ad abissi aberranti, tane di assurde creature. Ma prima della fine qualcuna di queste assaggerà il mio piombo. Lo devo al professore e lo devo a me stesso.

Jonathan Macini 2008

mercoledì 14 ottobre 2009

SERATA FM


La radio quella sera sputava pezzi jazz, roba acid tipo Jimmy Smith, oppure il vecchio Coltrane.
Vecchia buona radio, ricordo ancora quando la comprai, ormai saranno passati quasi dieci anni. Era un po’ nascosta dietro agli imponenti stereo di nuova generazione, ma mi chiamò, come fanno le cose quando scelgono un padrone. E lo stesso fu quella sera, la sera di cui vi sto parlando. Lei mi chiamò…
…ed io, sventurato, risposi, e per la prima volta dopo tanto tempo, ma senza pensarci due volte, salii in soffitta e la tirai fuori dalla sua polverosa custodia di plastica nera.
Le radio antiche hanno il loro perché; si sentono oggetti importanti, raccontano storie con stile, e la musica che trasmettono é sempre quella giusta.
Ma quella sera accadde qualcosa di strano…
Seduto sul divano a fumarmi l’ennesima camel light, galleggiavo quieto sopra un assolo di hammond, quando all’improvviso una scarica elettrica interruppe il vecchio Jimmy. Cavolo, pensai. Feci per andare a sistemare l’antenna, quando la voce di una donna mi bloccò.
«Fumi ancora, ricciolo? Quelle schifezze ti uccideranno…»
La voce la conoscevo, ma che diavolo ci faceva dentro la mia vecchia radio?
«Samantha, sei tu?»
Non pensate male di me adesso. Va bene, lo ammetto, stavo parlando ad un pezzo di legno e ad un ammasso di transistor. Ma sono più che certo che vi sareste comportati esattamente come me. Dannata radio…
«Certo che sono io, ricciolo. E chi altro dovrebbe essere…»
Aveva la cattiva abitudine di chiamarmi “ricciolo”, e un tempo poteva anche andarmi bene, ma adesso, con la piazza che avevo sulla testa, quel nomignolo aveva il sapore di uno sbeffeggio.
«Che cavolo sta succedendo!» imprecai a quel punto. E mi alzai dal divano, determinato a chiudere quell’assurda conversazione. Allungai la mano verso la manopola, ma la voce di Samanta mi bloccò di nuovo.»
«Stavo pensando alla veranda di Toby, alle nottate di quell’estate così calda, che anno era? 1997? 87? 77? 67? 57?…»
Già, le chiacchierate insieme ai soliti balordi, la musica in sottofondo, una cassa di birra fredda sugli scalini del porticato. Chi arrivava se ne agguantava una e poi salutava il resto della truppa. Le zanzare all’inizio erano perfide, ma poi si ubriacavano insieme a noi, o forse era la musica che le frastornava per bene. Verso le tre del mattino avevano smesso di tormentarci, e la notte entrava nel suo momento clou. Poi arrivava sempre il Freddy con una tipa nuova. Faceva le sue battute sconce e poi se ne andava. Samantha ballava in veranda, Miki mischiava tabacco e gangia, io andavo a cambiare disco; a quell’ora ci voleva del sano blues, non so se mi spiego. E poi via così, fino alle prime luci dell’alba. Chissà che anno era…
«Samantha, che diavolo ci fai nella mia vecchia radio?»
«E tu, che diavolo ti è preso stasera, che te stai da solo a parlare con una vecchia radio?»
Poi udì un’altra scarica elettrica, e finalmente Jimmy Smith poté finire il suo assolo.

AUTORI: GM Willo, Donatello, Ciccio, Aeribella Lastelle

giovedì 8 ottobre 2009

LEI NON SA CHI SONO

Mi ha invitato a bere qualcosa. L’appartamento è grazioso. Mette su un po’ di musica, poi sparisce in cucina. Torna con due bicchieri e una promessa di letto.
Le tolgo i drink. La stringo. Le faccio scivolare una mano sotto la gonna. Ma la mano è già un tentacolo.
La penetro con l’estremità gommosa di quell’appendice. Adoro prendere forme nuove. Le leggo sorpresa negl’occhi. Le piace per un po’, poi soffoca un grido. Non capisco se di piacere o di paura.
Urla mentre affondo negl’intestini. Lei si dimena. Danza.
Finalmente raggiungo il cuore. Lo accarezzo. Lo afferro. Lo strappo.
Dormi, piccina.

domenica 4 ottobre 2009

MONTESPECCHIO

Montespecchio è un illusione. Non esiste veramente, però c’è. Un campanile di roccia a 666 metri sopra il livello del mare, un indice che punta il cielo grigio degli Appennini, incurante del vento, solitario attende. Cosa? L’evento, il misfatto, l’incipit, il motivo, o più semplicemente, la venuta del viaggiatore…
Vi racconterò la mia storia e non pretendo che mi crediate. Non m’interessa. Voglio raccontarvela perché potrebbe mettere un germoglio dentro i vostri cuori. Con gli anni diventerà una bella pianta, magari un albero dalla folta chioma. Dovrete annaffiarlo quel germoglio, accudirlo. Vedrete, un giorno darà i suoi frutti…
È successo una quindicina di anni fa. A quel tempo il mondo era balordo, ma in maniera ancora tollerabile. Si sentiva il puzzo di marcio ma non se ne vedevano ancora gli effetti, così ti potevi stordire tranquillamente senza sentirti troppo male. Una buona birra, anche di mattina, magari dopo colazione. E poi continuavi, finché ti reggevano le gambe. Se si alzava il vento lasciavi fare a lui. Gli piace avvolgerti e sorreggerti, ma glielo devi permettere.
La realtà diventa un giaciglio davanti al fuoco, una camminata notturna per paesaggi agresti, un viaggio musicale verso il sorgere del sole. Le passavamo così le giornate, mentre l’inverno cantava la sua canzone, e il mondo continuava a riversarsi fuori da quella dannata scatoletta. Noi, si, perché eravamo in due. Le esperienze di tutta una vita si possono dividere tra quelle che si fa da soli e quelle che si fa in due. Mai più di due. La connessione è sempre verso un singolo, anche all’interno di un gruppo. E due eravamo, da soli contro un universo eternamente avverso.
- Ti va un goccio? -
- Certo che mi va! –
Incominciò così. La casa del popolo era aperta, malgrado l’ora presta, malgrado il freddo e la desolazione. Un vecchio centenario ci versò due grappini. Ci guardò da sotto due grigie sopracciglia. Ci inquadrò, ci capì, e infine ci sorrise. Il sorriso di un dio, la divinità dei monti che serve grappini ai viandanti. Roba da perderci la testa…
- Che cos’è Montespecchio? – Domandò il mio compagno, prima di abbandonarsi ad un lungo sorso. Il fuoco gli esplose in gola, gli occhi divennero due fessure umide, il naso si colorò di porpora… Ci voleva proprio, pensai, mentre buttavo giù il mio gottino.
Il vecchio riafferrò la bottiglia, una Candolini da due soldi, ma faceva al caso nostro. Evidentemente pensava che avessimo bisogno di un secondo giro.
- Perché volete saperlo? – ci chiese, versandoci da bere. Non aveva bisogno di guardare i bicchieri. Ci fissava negli occhi, uno sguardo gelido come il peggiore inverno, ma in qualche modo rassicurante. Era il dio della montagna, ne ero certo…
- Vorremo visitarlo. È possibile? –
Ero stato io a parlare. La grappa mi aveva messo coraggio, e ce ne sarebbe voluto di lì a poco. Il barista si versò a sua volta un grappino. Non mi sembrò un buon segno.
- Montespecchio non esiste – borbottò, poi deglutì di fretta il suo drink.
- Ma la mappa dice che… –
- La mappa? – interruppe il vecchio. – Le mappe non dicono mai un bel niente… –
- E allora che cos’è quella torre laggiù? Guardi, si vede anche da qui… – ed infatti, dalla finestra che si apriva dietro al bancone, si riusciva a scorgere un’alta costruzione di pietra, massiccia, quadrata, svettante sopra un piccolo promontorio.
Il vecchio non si girò neanche. Si mise a tagliare fettine di limone, borbottando frasi senza senso. Io guardai il mio compagno, lui sorrise. Negli occhi c’era la fiamma dell’avventura. Pagai ed uscimmo fuori. Il barista rimase dov’era, chino sull’agrume.
Il vento ci sorresse. Ne tirava davvero un bel po’. È una bella sensazione, specie se indossi quei pastrani di pelle o di velluto, e le frange ti svolazzano, senti le folate entrare da sotto e potresti lasciarti andare del tutto, forse addirittura volare…
- Andiamo… – Eravamo Jack and Elwood in versione appeninica. Eravamo Jeff Lebowsky e il suo amico Walter. Eravamo anche un po’ Frodo e Sam, e pure Anderson e Barre dei vecchi Jethro Tull. Un paio di sigarini e via, verso il campanile del diavolo…
- Ma te ci credi al diavolo? –
- No! –
- Ma sei sicuro? –
- Si! –
- E Charlie Manson? –
- E che diavolo c’entra Charlie Manson? Scusa il gioco di parole… –
- Beh, il tipo era diabolico, non pensi? –
- Si, può essere, ma questo non vuol mica dire che esista l’omone rosso col forcone e la coda. –
- Beh, hai ragione. Però a me un dubbio rimane… –
Eravamo sotto la torre. Lassù il vento tirava che era una bellezza. Un altro grappino sarebbe stato perfetto. Ricordo che volsi lo sguardo verso la strada più sotto, in direzione della casa del popolo che avevamo appena lasciato. Pensai di nuovo al vecchio barista, ai ragionamenti sul diavolo, a mia nonna che mi diceva sempre “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”. Che cavolo significava?
Rimanemmo là a guardarci, a prendere in giro il panorama, a finirci quel dannato sigaro. Si vedevano i picchi innevati, i villaggi verso valle, le strade asfaltate e quelle sterrate, delimitate da bassi muriccioli. Si vedevano i campi che dormivano il sonno invernale, le catapecchie dei contadini e i tralicci del telefono. Era un bel vedere…
- Che facciamo adesso? – domandai io.
- Entriamo… -
C’era una porticina di legno che ad occhio e croce non era stata usata dal almeno una decade. Stava attaccata per miracolo a due cardini arrugginiti, la vernice verde scrostata, la serratura divelta. Era aperta? Era chiusa? Ci voleva il diavolo per rispondere a quelle domande, pensai. Il diavolo, sempre lui…
- Ci vorrebbe un altro grappino! – dissi io. Ed era vero.
- Beh, abbiamo fatto tutta questa strada… – rispose il mio amico, ma la sua frase ammezzata sparì nel vento.
La porta scivolò troppo facilmente sui cardini. Mi aspettavo un cigolio, uno strappo, un crollo, invece rimasi deluso. Si aprì senza lamentarsi. Un vero benvenuto.
- Hanno oliato i cardini di recente -
- Brutto affare -
Oltre la soglia, l’oscurità. Una tenda di tenebre impenetrabile. Neanche la fredda luce di quella mattina d’inverno riusciva a muoversi all’interno, sconfitta da un buio liquido che andava contro ogni legge naturale. La razionalità vacillò, per un attimo soltanto, poi il fuoco dei grappini fece il suo lavoro. Poteva anche andare bene così…
- Vedi quello che vedo io? -
- Vuoi dire che non vedi un bel niente! -
- Esatto! -
- Ma come è possibile? -
La domanda rimase sospesa. Allora una luce soffusa inizio a descrivere i contorni di una figura. Dentro quell’antro di tenebre solide, i nostri occhi vennero ingannati da effetti ottici e giochi di luce. Almeno così mi piace pensare. Se dovessi credere veramente a quello che vedemmo, mi rinchiuderebbero da qualche parte, ne sono certo. No, non voglio prendervi in giro. Questa è una storia, niente più, e come ogni altra storia sottostà alle sue regole. Personaggi, mistero, morale… La zuppa della zia.
- Che diavolo è? -
- Non lo pensare neanche! -
L’omone col forcone e la coda si dava daffare alla fucina. Batteva il metallo con precisione, dando forma a pentole e padelle. Ve n’erano centinaia ai suoi piedi, laggiù in quell’intercapedine dello spazio, dentro la torre di Montespecchio. Un milione di pentole, ma neanche un coperchio.
- Lo diceva sempre mia nonna… – bisbigliai io. Poi il mio amico chiuse di fretta la porta. Come avventura poteva bastare, mi dissi, così lasciai fare. Rimanemmo a guardare il paesaggio per un po’. Accendemmo un altro sigaro. Nessuno disse una parola. Il vento cantava la solita canzone.
- Ti va un caffè? –
- Sarà meglio, vai! –
Anche il caffè ha il suo perché, non trovate?

GM Willo 2008

martedì 29 settembre 2009

LA SIMPATIA PER IL DIAVOLO DEI FRATELLI BOGIE


I fratelli Bogie suonavano il blues. Classici di derivazione rock, tipo Cream, Dylan, Stones. Venivano giù al pub alla fine di ogni mese. Non parlavano mai con nessuno. Kit al basso, Rick alla batteria e Pete alla chitarra e voce solista. I loro nomi risaltavano in lettere luccicanti su ogni strumento. Sulla grancassa era disegnato il loro logo, un coniglio saltellante sopra la scritta Bogie’s Brothers. Erano semplicemente magnifici.
Per il pub del paese era un toccasana. Nessuno sapeva di preciso quando sarebbero venuti. A volte li vedevi apparire il ventisette, altre il trentuno. A febbraio potevano sorprenderti il ventiquattro. Per questo motivo il locale era sempre affollato in quei giorni. La gente si metteva da parte i soldi per farsi l’ultima settimana del mese al pub.
Piccoli, taciturni, vestiti in modo vagamente retrò, li vedevi arrivare su un furgoncino wolkswagen color ocra. Entravano dalla porta principale senza salutare, e con gli strumenti sottobraccio si avviavano verso il palco. Il pub diventava improvvisamente silenzioso. Cento, centoventi persone, molte delle quali già un po’ brille, rivolgevano loro un ossequioso omaggio di benvenuto. La folla si apriva come le acque del mar rosso davanti a Mosè. Se qualcuno stava occupando il palco, smetteva all’istante di suonare e liberava il posto.
Loro, piccolini ve l’ho già detto, simili in tutto e per tutto tanto da sembrare gemelli, esibivano un ciuffo sbarazzino che li copriva quasi interamente il volto. Nel silenzio incantato del locale, si udivano solo i tonfi dei loro stivali sul palco di legno e le scariche elettriche degli spinotti. Poi iniziava sempre Rick con le bacchette; one, two, three, four…
Quella sera, la sera di cui vi voglio parlare, stavano suonando un repertorio classicissimo. Avevano attaccato Strange Brew, e Pete muoveva le dita sulla chitarra come il miglior Clapton. Nell’aria c’era odore di sigarette e pesce fritto, quello che si serve di solito con patatine.
Io sedevo insieme a Rico, un ragazzo che conoscevo da quando ero nata ma con cui non ero mai uscita. Quella sera decisi che mi piaceva. Mi piacevano i suoi modi educati, a volte così carinamente impacciati, i suoi silenzi mai veramente imbarazzanti, la spessa montatura dei suoi occhiali, che lo faceva nerd, ma con un certo fascino. Non era il tipo da fare mosse azzardate, perciò mi ero già decisa di baciarlo quella sera stessa. Con certi ragazzi, di solito i migliori, se non si prende l’iniziativa subito si rischia di diventare solo amici. Ed io non volevo essere solo amica di Rico.
Parlavamo di musica, e di che altro sennò. A lui piaceva la prima psichedelica, quella di Jefferson Airplane per intenderci. Ma ascoltava anche roba nuova, il filone elettronico nordico, come i Mum ad esempio. Ci intendevamo su alcuni lavori di Bjork, quelli più sperimentali. Insomma, era un bel parlare. Davanti a noi due pinte piccole di chiara.
Quando i Bogie attaccarono a suonare nessuno parlò più. Venimmo letteralmente rapiti dalla performance. L’impatto di quel sound era una macchina del tempo. Trasportava l’ascoltatore quarant’anni indietro.
Qualcuno in paese diceva che non erano come noi. Nessuno sapeva da dove venissero, nessuno riusciva a parlarci, non accettavano compensi, non bevevano birra… Arrivavano, suonavano e se ne andavano.
Timmi, il figlio del proprietario del pub, aveva provato a seguire il furgoncino wolkswagen, attraverso le curve e i tornanti che portavano fuori dal paese, ma era stato facilmente distanziato.
C’erano storie che dimoravano nelle profondità mnemoniche del villaggio, dicerie, superstizioni, assurdità alle quali tutti facevano finta di non credere. Storie di spettri, di banshee, di piccole creature della foresta, di nani e di giganti. E c’erano anche i Bogies. Si, si chiamavano proprio così.
Quella sera finirono con un pezzo sorpresa. Espressero la loro simpatia per il diavolo in un modo che neanche i migliori Jegger e Co. sarebbero riusciti a fare. Avvertii un formicolio, una sensazione di disagio, ma in qualche modo piacevole. C’era qualcuno o qualcosa che osservava, che ascoltava insieme a noi. Nelle scure finestre del locale andavano a morire i riflessi delle lampadine. Ma vi giuro che una di queste, mentre Pete cantava “piacere di conoscerti!” rimase completamente scura. Afferrai la mano di Rico. Gli indicai il vetro nero, la finestra oltre il palco. E anche lui li vide. Due occhi. Due fiamme brucianti.
Perché davanti ad un buon blues, neanche il diavolo riesce a resistere.

Aeribella Lastelle - 2008

lunedì 28 settembre 2009

ROBERTA

Roberta, invincibile e bella. Le tue mani così candide, delicate, complici le tue cremine del cazzo…
Ti è sempre piaciuto l’arazzo peruviano, quello appeso in salotto. Adoravi quei colori caldi, l’arancione, il giallo, il vermiglione. Te lo avvolgo addosso, così non prendi freddo. Perché in fondo al canale fa molto freddo sai…
Ti rimangono fuori i piedini. Che peccato!
Roberta, lo sai quanto ti ho amato. Gli altri non significano niente.
Allora mi verso del vino.
Tra poco farà buio.
Ti ricordi il ponte di ferro, dove c’incontrammo per la prima volta?
Andiamo là, che ne dici? C’è una bella vista…

venerdì 25 settembre 2009

LA BAMBINA VESTITA DI VIOLA

Oh, mio dio, perché mi chiedi questo? Forse semplicemente perché non esisti. Perché non può esistere un dio buono che permetta a certe creature di camminare sulla terra. È una follia… Tutto è una follia! Ecco che passa di nuovo sul marciapiede davanti a casa, piccola, innocua nel suo vestitino viola. Stringe la mano della madre e guarda in avanti. Non si muove come una bambina di tre anni. È meccanica, apatica, distante. Due occhioni scuri come le notti senza luna. Lei che non è di questo mondo…
No, non prendetemi per pazzo. Non ancora. Datemi una possibilità di spiegare. Fatemi finire, vi prego. Poi fate di me ciò che volete. Impiccatemi all’albero più alto, iniettate il caldo abbraccio della signora nelle mie vene, non m’importa più. Ma prima di voltare lo sguardo e dimenticarvi di questa brutta storia, fatevi dire che cosa può celarsi dietro l’ingenuo sguardo di una bambina di tre anni. Le ragioni della pazzia che sto per compiere…
La prima volta che ho visto la piccola è stato due settimane fa, al reparto bibite del supermercato. Era da sola in quel lungo corridoio, sovrastata da alti scaffali ricolmi di lattine e bottiglie, un cucciolo di tenerezza sullo sfondo di uno squallore quotidiano. La prima sensazione è stata quella di calore, lo slancio emotivo tipico che un adulto prova davanti a un bel bambino. Poi lei mi ha guardato, ed improvvisamente l’abisso si è spalancato davanti ai miei occhi.
Ho passato la mia vita a studiare le persone, le loro culture, la loro storia. Ho una laurea in antropologia ed una in lingue. Ho viaggiato molto; mi sono spinto fino alle sorgenti del Nilo, ho scalato i tetti del Tibet, navigato tra gli atolli del pacifico fino ad approdare alle coste dell’Antartica. So cosa si nasconde dietro il velo calato sulla nostra società. La grande bugia… Ma non divaghiamo. Ci tengo soltanto a precisare che attraverso gli anni e le esperienze ho sviluppato una certa sensibilità, un talento che mi permette di leggere le persone come se fossero libri aperti. Per questo sono convinto di quello che dico. Gli occhi della bambina, nell’istante in cui mi ha guardato, non erano umani.
Idoli e mostri possono cambiare nome attraverso il tempo e con l’avvicendarsi delle diverse culture, ma alla fine rimangono sempre gli stessi. La terra nasconde dei segreti ancestrali che l’uomo del ventunesimo secolo non può permettersi di conoscere. È troppo impegnato a correre dietro alla carota che gli hanno appeso davanti alla bocca. E forse è un bene per lui. Vive ignaro di tutto, venerando Dei inutili, inseguendo assurde chimere. Ma io sono anni che mi dedico al mondo inferiore, quello che non è schiavo del tempo, e attende, inconsapevole di attendere, perché a lui poco importa l’oggi e il domani.
Eccola che ripassa insieme alla madre, una famiglia normalissima. Vivono in fondo alla mia strada. La piccola è figlia unica, ci mancherebbe… Creature così hanno bisogno dei loro spazi. Non sa che la sto osservando. Non immagina che io sappia, e menomale, perché altrimenti per me sarebbe la fine.
Succederà domani, mentre sua madre l’accompagnerà a scuola. La incrocerò sul marciapiede, le darò il buongiorno, e in una frazione di secondo estrarrò il pugnale sacrificale. Devo puntare agli occhi. Sono loro la porta…
Lo strisciante si impossessa delle vite degli umani. Le usa, si balocca, ed infine le abbandona, come costumi da carnevale all’indomani del martedì grasso. Lui manipola la realtà, apre passaggi, inventa scenari. La bambina è il suo abito, e nel suo sguardo ha santificato il cancello attraverso il quale sopraggiungerà Dio. Si, avete capito bene; Dio. Né cristi né profeti, niente di tutto ciò. Vi siete divertiti per tutti questi secoli con le novelle di mamma chiesa? Beh, le favole sono finite, gente! Egli arriverà. Yog-Sothoth è il suo nome, e vaga nel cosmo in globi perfetti di luce. Definirlo come il Male è davvero limitativo. Una banale spiegazione per menti che non riescono ad arrivare oltre i contrasti bianco/nero. Si, perché lui è la sfumatura di tutto…
Pazzo, certo che sono pazzo. Urlate a tutti i vostri amici e parenti che avete appena incontrato un pazzo. Questo vi fortificherà. Vi farà sentire sicuri, così potrete andare a dormire. Dormire… da quanto tempo ormai non mi è concessa un’intera notte di sonno. Appena scendo nelle terre di oniria, palcoscenici di una realtà negata all’uomo moderno, la bambina col vestito viola appare, piccola, insignificante, ma è solo un’immagine riflessa. Lo specchio che rivela il vero le sta di fronte. Non posso rifiutarmi di guardare. E allora Lui appare, essere contorto fatto di pelle e corteccia, un tentacolo enorme al posto della testa e cinque enormi arti (tre sotto e due sopra) muniti ciascuno di tre neri artigli. Un grido esplode nell’oscurità della mia camera da letto. Mi sveglio tra le lenzuola bagnate di sudore. In quei momenti, invocare la morte è tutto ciò che mi rimane.
Ma quando la luce penetra finalmente attraverso le veneziane della finestra, qualcosa dentro me mi convince ad andare avanti con quello che mi sono prefissato di fare. Cerco il coraggio, la ragione di tutto questo orrore. Perché io? E subito mi rispondo; perché no? Ho tutte le carte in regola per affrontare una sfida di questo calibro. Se qualcuno deve prendersi la responsabilità di un gesto così folle (e le sue orribili conseguenze) questo non può essere che il sottoscritto.
Quando leggerete queste righe, se sarò abbastanza fortunato, mi troverò già a marcire dentro una cella. Me lo auguro per voi, perché l’altra possibilità è che Lui preveda le mie intenzioni, e decida di mostrarsi per quel che realmente è. Spero di riuscire a rimandare i suoi propositi. Dico rimandare, perché Loro non si fermeranno di certo davanti al primo imprevisto…
Non pretendo che mi crediate. Anzi, spero che non lo facciate. Che possiate continuare a condurre una vita serena, fatta di amori, figli, piccole soddisfazioni e piccole delusioni quotidiane. Lasciate perdere queste pagine. Sono solo i deliri di un folle, che in una bella giornata di settembre ha infilzato gli occhi di una bambina con un coltellaccio adorno di strani simboli.
Nessuna giustificazione. Solo uno spassionato consiglio; smettetela di pregare.
Non vi servirà a niente.

Jonathan Macini 2008

martedì 22 settembre 2009

TRE MUSICI CONTRO L'INNOMINABILE

tre-musici-contro-linnominabile

Peter e Daevid fecero un salto a casa di Ian, quella vicino al bosco, quella col porticato di legno e il grande camino in pietra. Il tavolo davanti al fuoco era imbandito di liquori, caramelle e funghetti. Insomma, c’era tutto il necessario per passare una bella serata. Una serata in compagnia…
Calarono le ombre, il fuoco continuava a scoppiettare e i tre sedevano beati a raccontarsi storie. Daevid descrisse mondi impossibili, pieni di fiori e di colori. Ian parlò del bosco e dei suoi mille segreti. Peter invece raccontò un paio di filastrocche senza senso. Gli altri fecero finta di niente perché sapevano che Peter era fatto così. Più unico che raro.
Ma insieme alle ombre calò qualcos’altro, ancora più oscuro e terribile. Complice di Tenebra e di Polvere, egli non ha nome, perché è l’assenza del suono, la rottura della sinfonia. Qualcosa di estremamente diverso dal silenzio, che a volte può diventare musica. L’Innominabile è il vuoto sonoro, il divoratore della vibrazione cosmica, il cospiratore di Entropia.
Il suo approssimarsi è sfuggente, uno sfrigolio nella matrice della realtà, giochi di luce e ombre cinesi. Fu il fuoco che scoppiettava ad avvertire i tre amici. D’un tratto danzò in maniera diversa, proiettò ombre maligne. Digrignò le fauci, azzannò l’aria, urlò. Perché il fuoco parla, a chi è capace di ascoltarlo…
I tre si mossero lenti ma precisi. I funghetti e le chicche erano in circolo, e questo amplificava la sensibilità, ma rallentava i riflessi. Lo scongiuro poteva funzionare solo se avessero unito i loro poteri.
Spostarono il tavolo e le sedie, facendo spazio davanti al camino. Poi ognuno afferrò il suo strumento. Daevid suonava il liuto, Ian il flauto e Peter i tamburi. Qualcuno batté il tempo e, allo scoccare del quarto quarto, fu subito musica…
Esistono luoghi che hanno poco a che fare con la realtà, la scienza, la ragione. Sono i luoghi della fantasia, delineati da menti sensibili e cuori romantici, costruiti su dei castelli d’aria fritta, zucchero filato e caramello. In uno di questi potreste forse trovare il prato in cui si combatté questa straordinaria battaglia. Tre musici contro l’Innominabile divoratore del suono.
Chi vinse? Beh, è ovvio. Vinsero i tre amici. Ma l’Innominabile non è stato sconfitto. Egli vaga ancora nello spazio siderale, infilandosi dentro buchi neri, esplodendo insieme a intere galassie. Egli continua la sua eterna lotta contro la Grande Sinfonia, il disegno che ha dato vita a questo nostro universo.
Finché la musica suonerà, saremo al sicuro. Ma dovete promettermi una cosa…
… non spengete lo stereo. Non spengetelo mai!

Aeribella Lastelle

UNA STORIA SENZA FINE

C’era una volta un ragazzo che ogni sera se ne saliva in camera sua a scrivere una storia. Prendeva il suo quaderno a righe, la sua penna a sfera blu, ed incominciava più o meno così:
“C’era una volta un ragazzo che ogni sera se ne saliva in camera sua a scrivere una storia. Prendeva il suo quaderno a righe, la sua penna a sfera blu, ed incominciava più o meno così:
“C’era una volta un ragazzo che ogni sera se ne saliva in camera sua a scrivere una storia. Prendeva il suo quaderno a righe, la sua penna a sfera blu, ed incominciava più o meno così:
“C’era una volta un ragazzo che ogni sera se ne saliva in camera sua a scrivere una storia. Prendeva il suo quaderno a righe, la sua penna a sfera blu, ed incominciava più o meno così…
Adesso penserete che questa storia non abbia una fine, e che sia solamente uno scherzo un po’ sempliciotto di uno scrittone burlone. Invece no! Perché, che ci crediate oppure no, nel ripetere quelle frasi all’infinito, il ragazzo visse per sempre felice e contento. E questa, naturalmente, è la fine della storia.

GM Willo 2008

lunedì 21 settembre 2009

VIRTUAL SOTHOTH

Mi auguro che quello che sto per raccontarvi sia a tutti gli effetti il delirio di un uomo in preda a strane febbri. Che gli eventi ai quali il mio avatar ha assistito, siano solamente il risultato di un’alterazione improvvisa delle droghe in circolo. Che il mondo dentro al quale mi sono proiettato non sia altro che la burla di un server criptato.
Le mie recenti letture potrebbero aver condizionato le mie percezioni. Creature dell’incubo, abbietti abitatori delle remote regioni del cosmo, divinità contorte degli abissi. Le ho credute favole per bambini. Fantasie distorte di menti tenebrose, venute alla luce all’inizio di un secolo buio. Il sogno che codifica la realtà. L’insensatezza di tutto.
Ma ai confini di questo universo fittizio, oltre i corridoi ambrati in cui il sistema binario si comprime, succedono cose strane. Laggiù esistono degli spazi immensi, esuli da qualsiasi legge elettronica. Spesso non sono compatibili con le nostre rappresentazioni, ma a volte puoi incontrare un “match”, un incastro perfetto che risucchia una parte di te, lasciandoti spiare oltre il velo.
Nei grattacieli informatici è possibile recuperare solo qualche brandello di conoscenza, testimonianze anonime di alcune diramazioni esistenziali, la maggior parte delle quali ha solo creduto di innescare un “match”. Il davolin ha fatto il resto. Quando quella roba si amalgama al tuo avatar, puoi vedere dio e sua sorella, e intrattenerti con loro a giocare a biliardo. Ho visto proiezioni rimbalzare per anni dentro un server di recupero, mentre i loro “host” vegetavano nelle cliniche fuori città.
Ma qualcuno si è davvero spinto oltre il velo, e ho paura che anch’io abbia fatto lo stesso.
Il distacco è stato qualcosa di doloroso. Nessuna codificazione percettiva pseudofisica, non se mi spiego… Il dolore non era la riproduzione di un evento nefasto, come succede di solito quando il tuo avatar inciampa. Ho avvertito una specie pulsione neurale all’altezza della spina dorsale, e un vuoto che si sprigionava da un punto ben definito dietro la schiena. Ma poi il dolore si è mosso fuori dal corpo, concentrandosi in una zona circoscritta a un metro e mezzo sopra di me. Ciononostante continuavo a percepirlo, ed era lancinante.
Poi le tenebre sono esplose nella mia testa. Era la morte come me la sono immaginata per anni. Una condizione di assenza assoluta; il realizzare unico della propria percezione. La totale disgregazione dello spazio-tempo. Una perfetta condizione di standby.
Non posso quantificare il tempo che ho passato in tale stato. So solo che ad un certo punto sono comparsi i globi di luce, una serie di sfere iridescenti che mutavano continuamente di colore e dimensione, nascendo e scomparendo.
Il ronzio delle sfere era simile ad un infernale didgeridoo, vibrante, alieno.
Non riuscivo a smettere di secernere bava dalla bocca, come una bestia agonizzante.
Ci sono voluti giorni perché riacquistassi il dono della parola. Ho pianto per settimane, risvegliandomi da incubi indescrivibili, madido di sudore, in preda ad un fredda paranoia.
Col tempo ho ripreso coraggio, ho tentato di razionalizzare l’evento, di convincermi che in fin dei conti non era possibile distinguere una percezione dalla realtà quando eri connesso, che per quanto assurdo avevo creato tutto io, con il mio cervello ormai devastato dalle sinte-droghe; mi ero quasi convinto, dannazione, quando lui suonò alla mia porta…

Il suo trench aveva il colore del lattice appena sgorgato, portava con disinvoltura un taqiyah bianco decorato con piccoli cerchi dorati: il suo sguardo era nascosto da occhiali circolari dalle lenti violacee senza stecche, ma la sua espressione tradiva un odio ed una violenza che rasentava la follia. Non avrei mai voluto farlo entrare nella mia tana, ma non riuscii ad impedirglielo. Non so spiegarvi il magnetismo che emanava, le vertigini che mi assalirono quando si tolse gli occhiali, fissandomi negli occhi senza battere ciglio.
Fu allora che sentii per la prima volta la sua voce. Ancora oggi non riesco a dimenticarla.
“Posso entrare?” Domandò, con un tono ne che non ammetteva alcun rifiuto.
“Chi…io… non la conosco…” balbettai, in preda ad un terrore misto a rispetto.
“Conoscere… usate sempre le parole che non comprendete…”
“Cosa vuole… da me?”
“I suoi ricordi.” mormorò, accennando un sorriso.
“I miei…ricordi?”
Non ho memoria di cosa accadde dopo. L’ultima immagine che riesco a rievocare sono le sue mani orrende che mi afferravano per la gola, le sue dita senza unghie, la sua voce che chiamava qualcuno… o qualcosa…
Mi risvegliai il giorno seguente, il collo mi doleva, ma nessun livido macchiava la mia pelle. L’appartamento era stato messo a soqquadro, il mio deck era stato portato via, per un attimo mi sfiorò l’assurda idea di denunciare l’accaduto alla psicosquadra…
Mi sarei guadagnato un mese di riallineamento neurale a mie spese, non mi avrebbero mai creduto, e gli ultimi brandelli di umanità che mi erano rimasti si sarebbero dissolti.
Mi alzai a fatica, frugai in quel caos in cerca della mia derringer intelligente, ma trovai solo una manciata di chip di credito e un barattolo mezzo vuoto di metaxanax.
Ingoiai le pillole ed indossai il cappotto. Era marzo, ma la neve copriva ancora la metropoli, nascondendo la sporcizia sotto un manto immobile.
Non sapevo dove fuggire, ma quel posto non mi sembrava più sicuro, continuai a chiedermi perché non mi avesse ucciso, mentre correvo nei vicoli imbiancati, mentre scappavo da un terrore che non aveva nome né forma.
Chi era quell’uomo, cosa avevo visto nel cyberspazio, perché voleva i miei ricordi?
Entrai in un drugshop di ultima generazione, sulla 24° via.
Il tanfo di spezie bruciate e di fumo invase le mie narici, mentre il proprietario mi squadrò con disprezzo, scambiando la mia paura per una semplice crisi di astinenza.
“Sei in paranoia, chombatta? Hai un aspetto di merda…”
Uscì dal bancone con lentezza, il suo accento era il frutto di almeno tre culture, così come la sua pelle ed il suo aspetto. Mi indicò un piccolo tavolo rotondo da fumo, mi stesi sul divano puzzolente ed attesi il menù. Più di centocinquanta droghe provenienti da tutto il mondo apparvero nello schermo tattile, con le controindicazioni scritte in font illeggibili.
“Caraqua? Sintecrack? Emostamina? Abbiamo in prova un taglio di Gandhi divino…”
“Siete connessi? E’ possibile connettersi con questo terminale?” dissi, indicando lo schermo incassato nel tavolino da fumo.
“Che cazzo ne so, le odio queste macchine di merda…” rispose
“Mi porti una tisana di Spitznick… bella calda…”
“Da mangiare niente?” non sembrava affatto una domanda…
“Una fetta di torta ESP…senza panna modificata, per favore…”
Non aggiunse altro, lasciandomi solo, davanti al terminale.
Presi un lungo respiro prima di crackare il menù con un movimento delle dita sul touch screen: lo schermo si tinse di nero, rivelando il sistema operativo che gestiva il menù. Ogni deck era connesso alla macronet, una rete di controllo delle multinazionali che monitorava istante per istante ogni comando impartito alle macchine commerciali, “finalmente sicuri” recitava lo spot della sua presentazione.
Avevo poco tempo, mi avrebbero scoperto nel giro di alcuni minuti, ma ero sicuro che mi sarebbero bastati…e forse sarei riuscito anche a “pagare” il conto crakkando il menù.
Se un “disconnesso” mi avesse visto mentre mi scagliavo nella rete esterna sfregando le mie dita sullo schermo tattile mi avrebbe scambiato per un autistico o per un folle, ma il locale era deserto, ed il proprietario era ancora nel retro a prepararmi la tisana.
Trovai l’accesso alla Wayback Machine in pochi secondi, rievocai l’immagine di memoria della mia ultima corsa, incrociando il mio IP con la data della mia esperienza virtuale e le coordinate della mappa interna. Interi terabyte di memoria fluttuavano nello schermo, in attesa di essere compilate. Un brivido mi assalì quando il proprietario sbucò all’improvviso dal retrobottega, con un vassoio lucente in mano. Due rapidi gesti sullo schermo, il menù riapparve all’istante, coprendo il sito pirata con il suo manto di bit.
“Ecco qua…fanno 28 eurodollari… pagamento anticipato, carta o chip?”
“Ho già pagato con il BAMA, mentre era di lá… i prezzi erano scritti nel menù…”
Il proprietario mi squadrò per alcuni secondi, andò in silenzio dietro il bancone e ci mise quasi un minuto per ricordarsi come controllare il pagamento elettronico dal suo server.
“Qui c’è scritto 280 eurodollari…” disse “grazie della mancia…”
Sudai freddo… uno zero di troppo, maledetta fretta.
“É che vorrei… fare un po’ di scorta di metaxanax…”
“Quella merda è illegale… io non vendo robaccia importata dall’Eurasia…” mentì.
L’embargo durava da più di dieci anni, ormai, ma tutti erano consapevoli che il mercato clandestino non solo non ne aveva risentito, ma anzi, aveva solo fatto lievitare i prezzi.
Non dissi niente, lasciai che i 280 eurodollari parlassero per me.
“Però…” concluse “se proprio ti va di scassarti il cervello…”
Tornò nel retrobottega, avevo poco tempo, presto l’accesso illegale sarebbe stato processato dai robot corporativi ed identificato come un attacco terroristico…
Ridussi di nuovo ad icona il menù con un rapido gesto delle dita, il servizio di recupero della rete mi aspettava, come un cane fedele e infallibile… RUN… YES… YES…
Mi ritrovai nel mio appartamento lordo di sangue.
Lessi per caso sul quotifax cosa era successo nel drugshop. Tuttora non ricordo nulla delle ore successive a quei tre comandi…
L’unità antiterrorismo entrò nel locale alle ore 23:07, pochi minuti dopo la mia fuga, evidentemente: trovarono il proprietario del locale in sedici zone differenti…

Da allora qualcosa vive in me, qualcosa di orrendo… di inconcepibile…
Non si tratta di allucinazioni o di un virus di ultima generazione!
Qualcosa di vivo si è impossessato della mia mente, del mio corpo… della mia anima!
Esistono cose che è meglio dimenticare, per sempre, una volta per tutte!
Stai lontano dalla rete! Non ti connettere! Una parte di lui vive ancora in quel Server!
Ormai riesco a comprendere quel ronzio, è una voce, un linguaggio, sta cercando un varco per la nostra realtà! Non sopporto più quel nome che ormai riecheggia nella mia testa, non posso vivere con il terrore che l’uomo in bianco torni a trovarmi…
Mi stanno usando… io sono la chiave, ormai.
Non posso permettergli di uscire dalla mia prigione…
NO! Hanno bussato alla porta… è lui…
La finestra… si… la finestra…Un volo e poi il nulla…
Ti porterò con me, maledetto… Non tornerai a vivere!
NON APRIRAI IL CANCELLO YOG SOTHOTH!

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Grezzo Illusivo 2008

domenica 20 settembre 2009

L'INIZIAZIONE

«Papà, tu qui?!»
Lo sguardo del vecchio si posò sull’aspirante adepta. Le neri vesti dei quindici sacerdoti giacevano riverse sul freddo pavimento del tempio, insieme a quella ridotta a brandelli della ragazza.
«Innanzi all’Entità Cosmica, tu non sei mia figlia. Sei farina di stelle, cellula del disegno.»
Gli uomini le si fecero appresso. Lei continuò a rimanere aggrappata alla sua umanità. Poi avvertì il tocco di una, dieci, venti mani. Le carni si fusero in una danza di nervi e mucose, gemiti e rantoli, fragranze e sughi. Non una banale ricerca del piacere, ma il sigillo immacolato di una grande iniziazione.

GM Willo 2008 per 101 Parole

venerdì 18 settembre 2009

IL DIO DEI DINOSAURI

Attorno al bar Cosmo i mondi ruotano su orbite ben delineate, per dirigersi inevitabilmente verso destini già scritti. Nel locale l’atmosfera è satura di luci soffuse, vortici di fumo dagli aromi pungenti e melanconici assoli blues. Ogni sera è così…
Dietro al bancone Toth il barista asciuga bicchieri e tazzine con gesti automatici, riponendo poi le stoviglie nei loro rispettivi scompartimenti. Alcune divinità si riuniscono attorno al biliardo, mirando le stecche su pianeti deserti, presi in prestito dai loro universi. Gli sferici oggetti, liberi dalle loro orbite-prigioni, girano sul tappeto verde partecipando al gioco. Presto o tardi verranno ingoiati dai buchi neri del biliardo.
Al bar Cosmo gli Dei cercano di distrarsi dai loro affari, ma a fine serata è normale che si ritrovino a parlare di lavoro.
Quella sera, a un’ora un po’ tarda, entrò un Dio piccolo piccolo. Al bar lo conoscevano tutti. Era un tipo un po’ bislacco, con delle idee buffe, e molti lo prendevano anche in giro. Afferrò un bicchiere e un cucchiaio e richiamò l’attenzione dei presenti. Annunciò la sua ultima creazione, una nuova specie vivente per il suo piccolo mondo. Una specie molto, molto più intelligente di tutte le altre, fatta a sua immagine e somiglianza, e capace di comprendere i più grandi segreti del cosmo. Una specie che col tempo avrebbe dominato su tutti gli altri esseri viventi.
I giocatori di biliardo si guardarono in silenzio e a qualcuno scappò una risatina. Poi tornarono a giocare, come se non fosse successo niente.
«Secondo me questa tua nuova invenzione fa la fine di quell’altra. Com’è che li chiamasti quei mostri? Dinosauri?» affermò un Dio, spedendo il pianeta numero otto in un buco nero laterale.
«Già, ricordo che dicesti che quei lucertoloni avrebbero dominato gli altri esseri con la loro forza. Ma ti dimenticasti di qualcosa, se non sbaglio…» ribatté un altro, ammiccando sardonicamente ai compagni di gioco.
«È vero, feci un piccolo errore di calcolo. Ma questa volta non si ripeterà. Ho progettato questi esseri fin nei minimi dettagli. Sarà la mia più grande creazione, vedrete!» E detto ciò l’ambizioso Dio lasciò il bar Cosmo.
Gli altri invece continuarono a giocare a biliardo.
«Scommetto dieci galassie che questa nuova specie non dura più di tre rotazioni» commentò un giocatore, lavorando la punta della sua stecca col gessetto.
Al bar Cosmo Toth il barista continuava ad asciugare i bicchieri.

GM Willo - 1997

giovedì 17 settembre 2009

LA VILLETTA DI PAPÁ



Lacrime di sangue sulla faccia della luna. Un ululato lontano squarcia il disegno delle tenebre, mentre arranco fuori dal seminterrato della villetta di papà, quella sulle colline.
Mi accendo una sigaretta. Ho le mani lorde ma non ci bado. Le cime degl’alberi si muovono nel riverbero delle luci artificiali, quelle dell’autostrada vicina. Autisti notturni sfrecciano a meno di duecento metri da dove mi trovo, del tutto ignari del macello appena compiuto.
Il sapore della sigaretta è buono. Ho appoggiato volutamente le dita alle labbra. Ho gustato il lordume mischiandolo al tabacco. Ferro e humus.
Perché uccido? È una domanda alla quale ho provato di rispondere spesso. Non è facile. È un po’ come chiedersi perché si respira. È una domanda sciocca. Spesso me la pongono anche le mie vittime, un attimo prima che la festa abbia inizio.
David e Luana. Si chiamavano così quelli di stasera. Il pretesto era scontato, un threesome a casa mia, tutto organizzato in chat; la coppia e lo sconosciuto. Adoro fare la parte dello sconosciuto…
Nell’email specifico ai due che è meglio se vengo loro incontro. La strada per raggiungere la villetta è dissestata e ci si può arrivare solo con un fuoristrada. Li vado a prendere al casello dell’autostrada, lasciamo la loro auto in una stazione di servizio chiusa, poi andiamo tutti quanti su con il mio cheerokee. Sono davvero carini, trentacinque lui, appena ventisette lei. Quando imbocchiamo lo sterrato, quello che porta alla villetta, avverto la prima erezione. Incomincia sempre così.
Parlo con loro ma la mia mente è altrove. Temo di aver dimenticato a casa il seghetto. Sarebbe un bel problema. Potrei risolvere con l’accetta, ma quella fa sempre troppi schizzi. E poi chi glielo dice a papi…
Quando entriamo in casa mi fanno i compimenti per l’arredamento, poi li faccio accomodare in salotto. Servo del brandy e della cola. Lei non beve.
Davanti al camino parliamo del più e del meno. Lei gestisce un piccolo negozio di scarpe, lui è istruttore di golf. Io dico loro che faccio lo scrittore, una bugia che mi viene sempre bene.
Ma non siamo lì per parlare. Dieci minuti dopo Luana me lo sta succhiando sul divano, mentre il suo compagno incomincia ad eccitarsi. Il fuoco scoppietta come un dannato, in sottofondo ho messo del lounge, ma si sente appena. Percepisco invece i mugolii di lui e i risucchi di lei.
David si avvicina. È accaldato dal fuoco e dalla situazione È pronto a prendere la sua compagna da dietro, mentre lei continua a darmi piacere. Ma non glielo permetto.
La beretta esplode in faccia all’istruttore di golf. Pezzi di cervello vanno a sfrigolare sui tizzoni del camino. Sento la mascella di Luana tendersi sul mio membro. Si è accorta della sorpresina. La prendo per i capelli e la sollevo. Lei urla. In faccia le leggo un terrore alieno, e me ne felicito, perché ne sono l’artefice.
Ordino al telecomando di alzare il volume dello stereo. Lei può urlare quanto vuole. Il ritmo è incalzante, c’è anche un bel sax.
Luana è piccola. Ci mette tutta la forza che ha in corpo, prova a divincolarsi, ma io le afferro una mano, la giro, la immobilizzo. Un attimo dopo è mia prigioniera. La festa può incominciare.
Nel seminterrato tutto è pronto. Purtroppo i miei dubbi vengono confermati. Non c’è il seghetto. Sorrido alla mia complice e condivido con lei il mio disappunto. Lei è imbavagliata. Mi risponde sbattendo le palpebre e soffocando un gemito. Come la capisco…
Luana ci mette venticinque minuti a morire. Fa bene il suo dovere. Rantola, defeca, schiuma. Insomma, tutto il repertorio. Io provo nuove tecniche. Alcune mi lasciano soddisfatto, altre meno. A fine opera mi convinco che ho bisogno di nuovi strumenti.
La notte è tiepida. La sigaretta è a fine. Mi perdo nel disco lunare. Anch’io vorrei ululare insieme a quel lupo. Come lo capisco…
A valle distinguo le luci della jeep, puntualissima. Sale lentamente verso la villetta, sballottata dalle buche e dalle pietre più grosse. Le vado incontro.
Si ferma accanto al cheerokee.
«Ciao papi!»
Papà mi guarda con un interrogativo negli occhi.
«È tutto pronto» lo rassicuro io.
«Bene…» risponde. È fiero di me.
«Di sopra bisognerà passare lo straccio…»
«Non ti preoccupare figliolo. Lo facciamo insieme, più tardi.»
Lo vedo sparire nel seminterrato.
Buon’appetito papà.

Jonathan Macini - 2008

mercoledì 16 settembre 2009

LA DONNA CHE PARLA AI CADAVERI

Cadono gocce di luna sullo smalto che ricopre le sue unghie. Se ne spezza un’altra, mentre le mani affondano nella terra smossa. Per amore si fa questo ed altro… e non è la prima volta.
Katelina riesuma i cadaveri per farli parlare. Il sortilegio è antico, un segreto perso nella notte dei tempi. Ha bisogno di sapere se lui le ha detto la verità. Se fosse così, avrebbe richiamato tutta l’oscurità che dimorava in lei per riuscire a salvarlo. Le tenebre che spazzano via le menzogne, urlando il loro bisogno di verità.
Per amore si guarda in faccia alla morte… ridendo.

GM Willo per 101 Parole - 2008

martedì 15 settembre 2009

JESSICA


Un sogno, nient’altro che un sogno.
Eppure ancora mi pare di riviverlo. Il profumo di orchidee, la bocca carnosa che mi sfiora la schiena, il respiro caldo sul mio corpo. E poi gli artigli, accarezzanti sulle costole, lenti ma inarrestabili verso il linguine. Il sesso nelle sue mani, ed io completamente perduto nel suo gioco.
Vorrei potermi convincere che solo di un sogno si è trattato. Vorrei riuscire a credere che le lenzuola, che adesso stringo tra le mani, non sono macchiate del mio sangue. Ed in realtà non lo sono, ma che importanza ha la realtà in una storia come questa… Io continuo a vederle, e questo mi basta.

Ieri sera sono tornato a casa tardi. Mentre aprivo il portone già si vedevano i riverberi mattutini. La sbornia stava passando. Succede sempre così. Quando la stanchezza prende il sopravvento, i fumi dell’alcol si dissolvono. La notte perde significato. Quel che è stato è stato…
Il Charlie, la barista, tre giri di rum, e poi a casa del Gringo per un paio di freghi, il temporale, la corsa in auto, le amichette, e infine lei: Jessica.
Che cosa ci faceva Jessica con quei tipi lì?
Quando la vidi non me lo chiesi. Le misi la lingua in bocca e ci perlustrammo sul divano. La coca funzionava. Potevo assaggiare i lamponi tuffandomi nelle sue tonsille. Mi afferrò il cazzo e mi sorprese un’erezione. A quell’ora, dopo tutto che avevo buttato giù, ci voleva altro che un bacio e una sega per svegliarlo.
Jessica.
Mi disse: “vado in bagno”. Ed io la seguii. Volevo farmela da dietro, appoggiata al lavabo, guardarla in faccia nello specchio mentre la facevo godere. Ma lei aveva chiuso a chiave la porta. Che avessi capito male?
Jessica aveva capelli neri e lisci, un trucco vistoso, eccentrico ma piacevole. Mi ricordava Cleopatra interpretata dalla Taylor. Ed io volevo essere il suo cobra.
Bussai alla porta del bagno. Nessuno rispose. Mi si avvicinò il Gringo, porgendomi una birra. Mi chiese se andava tutto bene, se mi piaceva la tipa. Io gli risposi di si. Gli domandai se la conosceva, e lui mi disse semplicemente che era nuova. Già, proprio così. Nuova. Che cazzo voleva dire! Comunque lui se ne tornó in camera dalle amichette, mentre io provai a chiamarla da oltre la porta. Sentivo l’acqua scorrere. Nient’altro.
L’erezione era andata. Anche la coca era andata. Mi ero stancato di quel giochetto. Afferrai la giacca e corsi fuori. Jessica poteva anche essere una gran bella scopata, ma ne avevo le palle piene di quella situazione. Montai in macchina. L’orologio sul cruscotto segnava le 4:59. “Fanculo”, pensai. E me ne tornai a casa.

Poi il sogno.
Era lei, Jessica. Apparsa in una notte imbrogliona, gustata per sbaglio su un divano di pelle. Esistono creature che lasciano il segno, come agenti segreti disseminano cimici per spiarci. Jessica, donna obliata ed obliante, blasfemia evocata per esercitare il male, in nome di assurde entitá. Non ha ucciso me, ma una parte di me. Quel sangue che suzza le lenzuola non è roba organica. Viene da qualche parte distante, qualcosa che noi umani, narcisisticamente, chiamiamo Umanità. Lei me l’ha portata via.
Il vento smuove le tende della camera da letto. Un vento strano. Porta con se un nauseante profumo di orchidee rancide. Qualcuno ci cammina sopra. Hastur è il suo nome.
Stanno arrivando. Jessica è una di loro. Quante ce ne sono a giro la notte…
Non fatevi trovare.
Stanno arrivando.

Jonathan Macini - 2008

lunedì 14 settembre 2009

LEI NON SA CHI SONO

Mi ha invitato a bere qualcosa. L’appartamento è grazioso. Mette su un po’ di musica, poi sparisce in cucina. Torna con due bicchieri e una promessa di letto.
Le tolgo i drink. La stringo. Le faccio scivolare una mano sotto la gonna. Ma la mano è già un tentacolo.
La penetro con l’estremità gommosa di quell’appendice. Adoro prendere forme nuove. Le leggo sorpresa negl’occhi. Le piace per un po’, poi soffoca un grido. Non capisco se di piacere o di paura.
Urla mentre affondo negl’intestini. Lei si dimena. Danza.
Finalmente raggiungo il cuore. Lo accarezzo. Lo afferro. Lo strappo.
Dormi, piccina.

Jonathan Macini - 101 Parole

LA STORIA DI UN DIARIO

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New Orleans; 1 Novembre 1925 - ore 6:30

E’ l’alba e mi sono svegliato come al solito; ormai è diventata un’abitudine.
Sono bagnato fino alle punte dei miei capelli; mi sono avvicinato allo specchio e ho visto il mio volto bianco e scarnito.
Mi sveglio così ogni mattina ormai da molte settimane; ogni volta che mi guardo allo specchio ho l’impressione di essere invecchiato.
Sono stanco e affaticato, e il mio respiro rantola; devo vedere un dottore il più presto possibile…
Ormai sono passate due settimane da quando sono scampato alla Confraternita; ogni vicolo, ogni ombra mi sembrano sempre più vicini.
Mi affaccio alla finestra e osservo con occhi pigri lo scenario che mi si presenta, e subito mi prende l’angoscia.
Mi sovviene un sermone del Maestro: “L’alito dei Grandi Antichi pervade le vostre anime”.
New Orleans si è svegliata con una fitta nebbia ed io ne sono assorbito; nulla sembra filtrare attraverso, e anche i rumori sono sordi.
Mi devo preparare; una buona colazione ad base uova e bacon e via verso il porto…
Ne ho parlato con il professore, e lui mi aspetta a casa sua a Cardigan; il viaggio è lungo ma spero che ne valga la pena.
La Mermaid Blue sarà la nave che mi porterà a destinazione. Non è di lusso ma per il mio vagabondare è più che perfetta; cabine accoglienti, bagni singoli e una piccola sala ristorante che all’occorrenza diventa anche una sala da ballo.
Presto, presto che sono in ritardo……….

1 Novembre 1925 ore 21:30

Siamo partiti con 3 ore di ritardo sembrava che la nebbia avesse inghiottito la rotta della nave. Dopo vari tentativi siamo riusciti ad trovare la via del mare, con molta fatica visto che il mare non aiutava. I passeggeri erano molto inquieti per via del ritardo. Il capitano Dorcas, ha riassicurato i passeggeri, motivando che era una manovra di routine prevista in caso di nebbia
Adesso l’oceano si apre davanti ai miei occhi, una massa scura e informe che sembra invitarmi ad una macabra danza. La baia di Cardigan è lontana molti giorni di viaggio, e questo tempo mi aiuterà a riflettere, nella speranza di ritrovare il sonno perduto.
Eppure la foschia, che avvolge ancora New Orleans alle mie spalle, sembra ancora tallonarci, come se dispiegasse i suoi tentacoli verso il largo nell’intento di spiarci.
Non mi fido della nebbia, e non mi fido dei suoi significati…
L’inverno non è lontano, lo posso avvertire nel vento che sferza quassù a prua. Nessuna stella nel cielo, e menomale. Anche loro potrebbero sorvegliarmi.
Comunque è troppo freddo per rimanere fuori a far compagnia alla notte.
Me ne scendo sotto coperta e allungo un bigliettone extra al barman, con la speranza che mi possa servire qualcosa che mi rianimi un po’, e scacci via il freddo che mi è penetrato nelle ossa.
Lui mi guarda inarcando le sopracciglia, poi apre un cassetto dietro al bancone con l’aiuto di una grossa chiave, e mi serve un doppio malto.
Lo ringrazio di cuore, ma lui non accenna neanche un mezzo sorriso.
Poco importa; mi sorseggio la medicina senza dare a vedere.
Nella sala ristorante siedono solo una silenziosa coppia di mezza età ed un uomo dal vestito grigio, assorbito totalmente dal Daily News.
Mi avvicino all’enorme vetrata che con l’aiuto dell’oscurità esterna riflette le tenui luci del ristorante ed il mio volto, emaciato e pallido. Più mi avvicino al vetro e più mi si rivela il paesaggio esterno.
La nebbia è ancora lì, troppo vicina per non nascondere un mistero; troppo densa per poter appartenere ad una normale condizione meteorologica.
Poi un ombra…
Il bicchiere mi scivola rompendosi con un rumore secco, il mio volto si contorce in una smorfia, la mia mente precipita per attimi che sembrano eoni…
Solo il paravento dell’incredulità e l’antidoto della coerenza riescono a farmi tirare un nuovo respiro e a convincermi che quell’ombra non era altro che un grosso gabbiano.
Mezz’ora dopo sono sotto le coperte, ma non ho ancora smesso di tremare.

3 Novembre 1925 ore 13:30

Finalmente la nebbia si è dissolta così come era venuta, e anche i passeggeri sono usciti dal loro guscio; stamattina mentre facevo colazione ho conosciuto la coppia di mezza età: Alfred e Lorna Sherman.
Alfred è una persona riservata dal viso spossato ma dai lineamenti di chi ad vissuto una esistenza di rigore, mentre la sua consorte Lorna ha un volto rotondo e una parlantina che pare di quelle comari da cortile.
Lorna mi ha raccontato che loro avevano due figli, Rupert e Gordon, ma la guerra glieli aveva strappati. Alfred, prima di andare in pensione, era stato un venditore di Bibbie, un lavoro in cui si era dedicato in modo molto scrupoloso. Lorna invece era la classica donna di casa
Erano sulla Mermaid Blue per la loro secondo viaggio di nozze; io da canto mio gli raccontai che ero un alienista; un termine con cui si indica chi si occupa delle malattie mentali, e che stavo facendo una crociera d’affari. Non volevo che Lorna si immischiasse più del dovuto, visto il rischio che sto affrontando con la Confraternita .
Gli Sherman mi hanno invitato per cena al loro tavolo, ma sono indeciso se andarci oppure no. Mi devo rilassare, poi vedrò se è il caso. Avevo bisogno di un bagno rigenerante, quindi ho ringraziato i coniugi e mi sono avviato alla mia cabina.
Mentre scorreva l’acqua calda nella vasca, mi sono avvicinato ad un vecchio grammofono che si trova vicino al letto e ho fatto suonare Down Hearted Blues. Sotto l’influenza della musica e il calore del l’acqua i mie pensieri sono cominciati a vagare.
Maledico ancora gli eventi in cui mi hanno portato fino ad qui, alla mia voglia di sapere, alla mia caparbietà nel carpire la realtà.
Sarà per questo che avrò intrapreso il mestiere di ricercatore sul campo; tutte le mie lauree nelle più rinomate università e tutti miei viaggi non sono serviti a nulla dopo quel fatidico giorno.

Era il 19 Agosto del 1918 e mi trovavo a Tell-el-Amarna per un convegno sulle ultime scoperte archeologiche; il caldo era allucinante, l’aria era arida e nel vento c’era profumo di tè. Erano le 13:30 quando bussarono alla porta della mia stanza d’albergo; aprii e davanti mi trovai Hassan.
Dopo i soliti rituali di benvenuto, Hassan passò a parlarmi d’affari; egli era in contatto con un suo collaboratore, un tombarolo in gergo, che era venuto nel suo negozio di antiquariato con un pezzo unico. Secondo lui lo dovevo assolutamente esaminare prima che qualche mio collega ne venisse in possesso.
All’ inizio fui un po’ titubante, ma con lui avevo sempre fatto buoni affari, quindi mi feci accompagnare dal suo amico.
Mi ritrovai in un tipico Bazar dove si serve tè e si fuma narghilè; le persone che frequentavano il locale non erano sicuramente dei gentleman; dai loro occhi trasudava odio.
Hassan mi indicò con lo sguardo il tavolino dove era seduto un uomo dal viso sciatto e le mani ossute; era il nostro contatto. Ci sedemmo e ordinammo del tè.
L’individuo non parlava la mia lingua così Hassan fece da traduttore. La sua voce era esile; cominciò ad raccontarci che durante una sua perlustrazione nel deserto in cerca di sepolcri, si era improvvisamente ritrovato in mezzo ad una tempesta di sabbia.
Decise di accamparsi nell’attesa che la tempesta finisse; mentre la bufera era in corso notò che la duna che si trovava davanti a lui si era mossa mostrando degli scalini che scendevano verso l’oscurità.
Pensò che Allah gli aveva teso una mano; un tomba nascosta, Vi si addentrò percorrendola in tutta la sua lunghezza, e dopo varie insidie si ritrovò nella stanza principale.
Ne rimase sconcertato e raccapricciato; mai in tutta la sua vita aveva visto una tomba così anomala. L’ambiente non era molto grande; ci entravano dieci persone al massimo e al centro di esso vi era il luogo della sepoltura.
Le pareti della stanza erano ornate da strane figure, diverse dalle lingua dei suoi avi. Era certo però di trovarsi dentro la tomba di un sacerdote di Set.
Nel muro di fronte a lui si ergeva la figura di Set, ma non era nella sua forma divina, bensì in quella umana. Era seduto su uno scranno e la sua pelle era ricoperta di squame di serpente. Davanti a lui una schiera di uomini e strani rettili provvisti di gambe e di braccia, che indossavano singolari tuniche. Gli adepti offrivano in dono un fanciullo. La sepoltura era arabescata da singolari scritte e simboli.
In principio il tombarolo indietreggiò, ma poi, ripensando all’enorme ricchezza che avrebbe probabilmente recuperato dentro al sarcofago, si rincuorò e decise di aprirla.
Prese un kepesh che giaceva lì per terra, e con quello fece forza per schiudere la tomba. La aprì e lì il suo cuore rimase fermo per un istante. Non vi era la solita mummja, che in arabo significa mummia, ma il corpo di un uomo ricoperto da un bozzolo come quello di una farfalla.
Solo il volto era visibile. Egli stramazzò per terra dal terrore; pensò di fuggire, prima che in quel luogo maledetto si manifestasse l’ira di Set. Poi si disse ad alta voce che Allah lo avrebbe protetto e che nessun demone poteva ferirlo. Si alzò e guardò dentro al sarcofago.
Ai piedi del morto vi era una pietra nera. La prese e corse via come una lepre inseguita da un cacciatore.
Da prima lo guardai come si guarda un folle. Diedi un’occhiata al mio amico e capii.
Infuriato mi alzai di scatto dalla sedia e gli dissi che se voleva incrementare il prezzo non aveva bisogno di raccontarmi questa fandonia. Quindi girai le spalle e feci per andarmene.
Fui preso per un braccio dal Hassan. Era calato un silenzio quasi spettrale e tutti gli occhi dei quei loschi gentleman erano adesso su di me; il tombarolo disse che se volevo una prova dovevo seguirlo.
Riflettei un attimo, poi preso sia dalla mia curiosità, sia dall’impressione che un mio rifiuto avrebbe scosso gli animi dei gentleman, accettai.
Il tombarolo uscì dal Bazar con un passo molto spedito. Sembrava che lo inseguisse il Diavolo in persona. Ad ogni incrocio si soffermava con la paura negli occhi, come se qualcuno o qualcosa lo osservasse.
Raggiungemmo la sua dimora e ci fece accomodare a un tavolino; dal suo nascondiglio tirò fuori la pietra e me la mostrò tenendola in mano.
E per la prima volta la vidi; ero stupito, eccitato. Forse ero davanti alla scoperta del secolo, oppure alla truffa più colossale della storia. Si trattava di un sasso nero come la notte, liscio e fosco, grosso come un uovo di struzzo e con sette caratteri criptici incisi sulla sua superficie.
Allungai la mano per poterlo esaminare meglio, ma l’uomo lo ritrasse a se. Se volevo la roccia dovevo sborsare i soldi, e il prezzo era molto alto. Purtroppo quella somma non l’avevo dietro con me, quindi combinammo di vederci più tardi.
Mentre il tombarolo riponeva la pietra, scorsi il suo nascondiglio, ma non lo riferii ad Hassan che era intento a parlare con lui.
Ritornammo all’albergo e mi accordai con Hassan per l’ora del appuntamento. Le una e 30 di notte.
Passai tutto la giornata in frenetica attesa. Sembravo un bambino che aspetta i doni di Natale; la curiosità mi stava uccidendo.
Giunta l’ora ci affrettammo ad raggiungere la casa del tombarolo. Arrivati davanti alla porta di casa, Hassan fece il gesto di bussare ma vide con suo stupore che la porta era leggermente aperta. Entrammo e ci ritrovammo davanti al più efferato e atroce delitto. Allah non lo proteggeva più…
Il tombarolo giaceva a terra con il ventre squarciato. Sembrava che qualcosa fosse fuoriuscito dalla cassa toracica; il volto era violaceo e il sangue era sparso per tutta la casa .
Hassan corse fuori dall’ abitazione dando di stomaco; io ero terrificato e disgustato, ma approfittando della breve assenza di Hassan, mi indirizzai verso il nascondiglio, e qui con mio sorpresa oltre che alla pietra vi trovai un papiro.
Lo aprii con delicatezza e vidi che sulla pergamena vi era disegnata la pietra e vi erano epigrafe a me sconosciute. Il papiro era senza dubbio autentico. Adesso dovevo conoscere, carpire la realtà…


Da allora sono passati più di sette anni, un tempo considerevole se lo si passa piegato su tomi bizzarri circondato da arcane suppellettili. Ma se gli oggetti possono scomparire nei fondali marini, ed i libri bruciare in alte lingue di fiamma, la conoscenza rimane, e nel mio caso è come un mostro tentacolato che mi stritola lentamente le cervella.
Come vorrei che quella pietra fosse rimasta dove era, che l’assassino del tombarolo si fosse portato via quel mistero. Più volte mi sono chiesto perché mi fu lasciato quell’indizio; una torta di mirtilli freschi davanti agli occhi di un bambino goloso…
Si dice che chi guarda oltre il velo della grande bugia senza impazzire ha mosso il fatidico passo dentro l’abisso. E l’abisso è davvero profondo, credetemi…

4 Novembre 1925 – ore 18:30

Adesso ne sono certo; la Confraternita ha un uomo a bordo. Se è la pietra che cerca, non la troverà di certo addosso a me, o nella mia cabina. Dovrà aspettare che arriviamo a Cardigan, e per allora spero di aver scoperto chi è.
Stamattina dopo colazione sono rientrato in camera a prendere il mio quaderno degli appunti, ed è allora che mi sono accorto della presenza del topo. E’ stato bravo a cercare senza lasciare tracce, ma non abbastanza per il mio occhio esperto.
Il telo con cui copro il mio bagaglio, una cassapanca di famiglia del tardo ‘800 di cui vado molto fiero, è di un tessuto egiziano dai motivi sgargianti. Difficile riconoscerne il sopra e il sotto.
Il topo sicuramente non ci ha fatto caso ed ha ricoperto la cassa, dopo averla sicuramente ispezionata, senza badare al disegno del telo.
La Mermaid Blue trasporta tabacco per una grossa compagnia. Ci sono due inservienti che si prendono cura dell’enorme carico che occupa gran parte della stiva. Dorcas mi ha assicurato che non c’è nessun altro sulla lista passeggeri oltre al personale di bordo, i due inservienti e i passeggeri.
Non ho parlato al capitano dei miei sospetti. Vorrei riuscire a passare inosservato il più a lungo possibile.
La riservatezza dell’uomo col Daily News è troppo appariscente per renderlo un indiziato. I coniugi Sherman li escluderei a priori. Poi vi sono i McEwans, una tranquilla famiglia del New England in viaggio verso i lontani parenti scozzesi. Si fanno vedere poco, hanno tre figli piccoli che scorrazzano a volte sul ponte, e si fanno portare la cena nella loro cabina, ogni sera. Un profilo che esaurisce ogni sospetto.
Ho pensato a qualcuno della ciurma di Dorcas, ma ho esclusa anche questa alternativa. No, sono convinto che il topo è un clandestino, e prima di avvistare le scogliere britanniche sarò riuscito ad acciuffarlo.

5 Novembre 1925 – ore 10:30

Stanotte ho fatto un incubo.
Mi sono svegliato con il cuore in gola e le labbra aride. Le lenzuola erano fradice di sudore e esalavano un odore agre e pungente.
Sono andato in bagno per sciacquarmi il volto; le mie mani tremavano ancora .
Alzando lo sguardo oltre l’oblò che si affaccia sulla passerella della nave ho visto nella penombra due occhi ambrati che mi osservavano.
Di scatto mi sono ritrovato con le spalle al muro e con le gambe di gelatina. Ho incominciato a gridare istericamente. Gli occhi erano come quelli di una belva che osserva la sua preda.
Sono rimasto per un ora accucciato nell’angolo in posizione fetale, aspettando la mia fine per un tempo che sembrava un’eternità.
Poi ho alzato la testa per guardare, ma non vi era più nulla. Da allora sto cercando di convincermi che si è trattato solamente di un’altra allucinazione.
Tornato a letto ho cercato di ricordare l’incubo; mi trovavo a poppa della nave e intorno a me solo la foschia e un silenzio innaturale. Camminavo in cerca di qualcuno ma d’un tratto calpestai qualcosa. Mi chinai per osservare e vidi che le mie gambe ero ricoperte da una melma vischiosa di color porpora, una sostanza che mi imprigionava al suolo.
Mentre cercavo di liberarmi da quella massa gelatinosa, cominciò ad echeggiare nell’ aria uno strano suono; Tekeli-li, Tekeli-li… Più tentavo di liberarmi e più l’eco si faceva forte e vicino.

5 Novembre 1925 – Ore 23:00

Camminatori dell’incubo, sospiri nel vento, acri odori di decomposizione…
Ho trovato la grossa chiave del barman ed ho afferrato la medicina. Stanotte solo questa bottiglia potrà aiutarmi a rivedere la luce del giorno…
Non è un uomo il clandestino. Non è un uomo colui che cerca me e cerca la pietra.
La rivelazione mi contorce le viscere. Hanno evocato uno di quelli…
L’ho visto mentre il cielo si oscurava, e il sole scompariva nel mare all’orizzonte. In quel momento le luci e le ombre si sposano, procreando le assurde creature del vespro.
L’essere mi osservava da oltre la balaustra del ponte di poppa, più rialzato rispetto al resto della nave. Un’ombra con corna e coda, e due occhi di fuoco liquido. Potrei giurare di avere intravisto un ghigno…
Se mi è concesso di vivere è perché ancora non è riuscita a mettere le mani sulla pietra.
Vorrei poter dimenticare dove l’ho nascosta, perché non mi sorprenderei se quella creatura fosse in grado di penetrare la mia mente ed estirparmi il segreto, insieme alla mia massa celebrale…
Devo trovare un arma. Devo provare a difendermi.
Il capitano, forse…

6 Novembre 1925 – ore 11:30

Sono entrato nella cabina di Dorcas stamattina. Mi sono sentito un ladro, ma dopo ieri sera non avevo altra scelta.
Il whiskey è riuscito a stordirmi, ma al risveglio la mia testa pulsava.
Il capitano ha una piccola artiglieria che tiene nascosta in un armadio a muro. Cercare e recuperare oggetti è la mia professione, non troppo diversa da quella di un ladro…
Mi ci sono voluti dieci minuti per trovare la chiave dell’armadio.
Ho afferrato una revolver calibro 38 che giaceva in fondo a un cassetto, nella speranza che Dorcas non se ne accorga subito.
Sei proiettili…
…mi chiedo se saranno sufficienti…

7 Novembre 1925 - ore 10:30

Un grido disperazione mi ha destato dal sonno. La signora McEwans era in lacrime di dolore; stamattina, finita la sua colazione, è andata a svegliare i suoi pargoli ma non erano più nella loro cabina. Il capitano e tutto l’equipaggio hanno perlustrato la nave in lungo e largo, ma senza risultato. Che il clandestino gli abbia divorati? Che tremendi pensieri mi ronzano nella mente; quale pasto orrendo egli avrà mai fatto. I McEwans sono al totale sbando, completamente scioccati ed inermi. Devo fare qualcosa…

7 Novembre 1925 – ore 22:10

La nave è nel panico.
Questo pomeriggio uno dei due inservienti della compagnia di tabacco è stato ritrovato dentro la sala macchine, sparso un po’ ovunque… Mentre scrivo mi è tornata in mente la scena e ho dovuto correre nuovamente in bagno a svuotare uno stomaco già vuoto.
Dorcas ha ordinato a tutti di chiudersi nelle proprie cabine fino a nuovo ordine. Ha armato i suoi uomini e adesso stanno dando la caccia all’assassino. Ma ho appena sentito delle urla, e non credo che appartengano alla creatura dell’incubo che sta cercando la mia pietra.
Stringo il calcio della revolver fino a farmi sbiancare la mano. Non ne ho mai usata una, ma non esiterò a farlo, se me ne sarà data la possibilità…

8 Novembre 1925 – ore 00:35

Ucciderà fino a quando non gli avrò dato la pietra. Poi continuerà ad uccidere… Ecco qual’è il piano dell’infima creatura a bordo.
Nelle ultime due ore vi sono state altre urla, una delle quali poteva essere la signora Sherman. Povera donna… Ed è tutta colpa mia!
Non posso continuare a nascondermi. Questa pazzia deve finire, adesso!

8 Novembre 1925 – ore 12:10

Splendi sole, la nebbia è lontana, il buio e fuggito, non odo il ruggito, è tutto finito…
Un solo proiettile in canna, mi guarda dal buco e sono convinto che mi stia dicendo “fammi uscire!”. Il dito scivola sul grilletto, ma ancora non preme, non è ancora il momento…
Sono l’ultimo superstite della Mermaid Blue. La nave è fuori rotta, si spinge sempre più a sud, e il caldo ne è testimone.
Alzo lo sguardo ed osservo nuovamente quella massa gibbosa di carne e pelo che giace nel suo stesso sangue scuro, accanto a me, sulla banchina assolata. Cinque colpi ravvicinati, uno al petto, due al linguine, uno all’arto superiore (impossibile chiamarlo braccio) ed uno, probabilmente fatale, alla testa. Oltre il suo corpo riesco a scorgere la testa decapitata di Dorcas, l’ultima vittima di quel mostro, prima che si gettasse su di me.
Come mi ero immaginato, avergli consegnato la pietra non è servito a placare la sua sete di sangue. Ha continuato la sua danza di morte, divorando carni ed estirpando urla di follia.
Afferrava le sue prede affondando i lunghi artigli nelle loro carni, volava molti metri sopra la nave e li lasciava sfracellarsi al suolo. Le teste esplodevano come zucche, disseminando materia grigia un po’ ovunque. Adesso grandi chiazze vermiglie nascondono la vernice bianca e azzurra della cabina di pilotaggio.
Ho ancora nelle orecchie le urla della gente che correva disperata sul ponte, i proiettili che sfrecciavano attorno alla creatura senza riuscire a colpirla e i tonfi sordi dei corpi caduti, nel buio della notte senza luna.
Ho recuperato la pietra dal nascondiglio in cui l’avevo deposta al momento della partenza, un anfratto tra un intreccio di tubature della sala macchine. Nel disperato tentativo di fermare quella strage, gliela ho gettata contro, sperando che sia la pietra che il mostro potessero scomparire nella notte, o magari finissero ingoiati dal mare. Ma la creatura era stata abile ad afferrare l’oggetto al volo. Sono certo che il suo volto demoniaco si è contorto in un ghigno di soddisfazione, mentre depositava la pietra dentro le sue carni, in una specie di tasca sottopelle.
Ho davvero sperato che se andasse, invece quel mostro perverso ha continuato le sue efferate pratiche di morte, uccidendo ad uno ad uno ogni componente dell’equipaggio, ogni passeggero, e lasciandomi di proposito come ultima vittima.
Il revolver ha ancora un proiettile in canna. L’ho chiamato Rose, come quella ragazza della Virginia che molti anni fa, regalandomi un sorriso, mi fece innamorare. Chissà dove era adesso, piccola Rose…
Devo fare un ultima cosa però…

Ho estratto la pietra dall’addome della bestia. Ho infilato le mani dentro il foro provocato dalla 38, strappando la carne quel tanto che bastava per estrarre l’oggetto. L’ho guardato un ultima volta, la liscia superficie che sembrava ingoiare anche la luce del sole, e le incisioni a prima vista senza senso. Poi ha descritto un arco oltre la balaustra, scomparendo negli abissi. Forse è proprio laggiù che dovrebbero rimanere nascoste certe cose…
Adesso basta scrivere. Fa troppo caldo…
La tenera Rose mi sta chiamando.
Vuole darmi un bacio, e non posso più farla aspettare…

FATUM POETUM & GM WILLO - 2007