martedì 26 marzo 2013

UNA QUESTIONE INSIGNIFICANTE


di GM Willo

Avevamo fatto i nostri progetti, come ogni coppia passati i trenta. Emanuela voleva due figli, io mi sarei fermato al primo, ma non dissi niente perché le cose dovevano ancora mettersi in moto e non c’era alcun bisogno di essere troppo previdenti. Prima di tutto il matrimonio, non perché credevamo nella sacralità del voto, ma per la comune idea di rassicurare i figli, come se un pezzo di carta fosse sufficiente… Adesso, dopo tutto quello che è successo, trovo buffa quella nostra complicità, quella voglia frenetica di disegnare il nostro mondo sin nei minimi particolari. Eppure ci credevo, come credevo alle cose normali che mi accadevano tutti i giorni, la mia rassicurante quotidianità fatta di cappuccini e cornetti, di chiacchiere con gli amici del bar e di giornali lasciati sugli sportelli dei freezer per i gelati. Credevo alla puntualità con cui mi recavo in ufficio alla mattina, alle tiepide battute insieme ai colleghi, per insaporire i rapporti, alle discussioni sportive durante la pausa pranzo e ai regolari messaggi di lei, che mi arrivavano sul cellulare per ricordarmi quanto ero fortunato di conoscere una persona dolce e sensibile come Emanuela. Credevo a tutto questo, come un miliardo di uomini come me. Ma il dolore è capace di aprire porte che non avresti mai pensato di avere. Esistono angoli remoti dentro di noi, invasi da ragni ed altri insetti, in cui la luce è bandita. I più vivono una vita sospesa, galleggiando vicino ai piani bassi. Pochi si elevano oltre le nubi, per lasciarsi intrattenere dagli abbagli del sole. Solo chi ha questa fortuna vive con il rischio di cadere, e solo una caduta dall’alto può farti precipitare nelle profondità in cui dimorano gli aracnidi… Ho visto quei luoghi dentro di me, ho aperto le porte proibite, ho anelato di abbandonare la mia anima agli eccessi e lasciarmi cullare dalla follia. Ho pensato che la colpa fosse sua, ma in verità non esistono colpe. Siamo piccoli pedoni su una scacchiera sconfinata, dentro un gioco ad infinite dimensioni.
Per il viaggio di nozze scegliemmo la Turchia. Era aprile ed entrambi preferivamo evitare le temperature proibitive dell’estate, perciò l’idea di non perdere neanche uno scorcio della splendida Istanbul, scattare qualche migliaio di foto e godere spensieratamente l’atmosfera della città dei due continenti ci dissuase dall’aspettare le ferie di luglio. Fu in un piccolo mercatino della metropoli turca che acquistai l’oggetto che cambiò completamente la mia vita e la percezione del mondo in cui viviamo. Una scatola, una semplice scatola quadrata ricavata da un blocco di marmo di una ventina di centimetri di lato, un portagioelli, niente più, o almeno questo sembrava. Non aveva decorazioni ma le venature del marmo creavano dei disegni naturali davvero stupefacenti, che in principio non riuscii ad identificare. Ve n’era soprattutto uno sul coperchio che ricordava la forma di un insetto, o di un crostaceo… Tutto sommato l’oggetto non era molto bello, ed infatti lo intravidi in un angolo della bancherella, semicoperto dalle altre cianfrusaglie, ma per qualche oscura ragione ne fui affascinato. Fin dal principio Emanuela, come era suo solito fare, manifestò accanitamente il suo disgusto e finimmo per litigare perché, per quanto assurda fosse la questione, io non avevo alcuna intenzione di lasciare il mercato senza quella scatola. Le promisi che l’avrei portata in ufficio per usarla come portaoggetti e finalmente raggiungemmo un accordo. Solo adesso mi spiego quel suo incontenibile senso di rigetto nei confronti del mio curioso acquisto, come se un senso assopito in lei si fosse ridestato d’improvviso.
Tornati in Italia portai come promesso la scatola in ufficio ma evitai, per qualche oscuro motivo, di farla vedere ai miei colleghi. La usai come portaoggetti mettendoci dentro delle biro, alcune graffette e una chiavetta usb, ma la nascosi dentro l’ultimo cassetto della scrivania che era sempre vuoto. Ogni tanto mi prendeva voglia di guardarla, di rigirarmela tra le mani, in un gioco tutto mio, cercando di interpretare i disegni delle sue venature. A volte vi vedevo il mare, altre volte la sagoma di una città in rovina, altre ancora gli appendici contorti di strane creature insettoidi. Non so come mi sovvenne quell’idea, forse presa in prestito dalle mie letture giovanili, ma mi tornò in mente assiduamente durante il periodo antecedente i viaggi.
Tra me ed Emanuela le cose andavano come da programma. Lei aveva smesso di usare la pillola, o almeno così diceva, e si era presa un giorno libero in più alla settimana per sistemare la nuova casa, un appartamento poco fuori dal centro che avevamo affittato insieme un paio di settimane prima del matrimonio, e che aveva una camera in più per il futuro, o i futuri, membri della nostra famigliola. La sera, rientrando dall’ufficio, la vedevo serena ed appagata. Mangiavamo veloci una pasta in cucina, io parlavo distrattamente del mio lavoro, lei dei suoi amici su facebook, poi mi andavo a fare una doccia perché conoscevo il rituale: dovevamo provare ogni giorno durante il periodo più fertile, perciò facevamo l’amore, sempre più in maniera meccanica, ed infine ci lasciavamo cullare spensieratamente dallo schermo della nuova TV al plasma appesa davanti al nostro letto. Tutto sommato la prevedibilità di quella vita non mi disturbava. Accettavo tutto con una sorridente apatia, ma ogni giorno che passava mi scoprivo a desiderare con crescente fervore quel momento da solo in ufficio, durante la pausa pranzo delle una. I miei colleghi uscivano in fretta dai loro loculi per guadagnare la sala mensa o il bar di fronte, ma io rimanevo ancora cinque minuti, fino a quando gli scalpiccii degli impiegati si perdevano nella distanza lasciandomi al mio momento. Allora aprivo lentamente l’ultimo cassetto della scrivania, afferravo la scatola di marmo venata e mi perdevo nei suoi disegni, accarezzandola delicatamente con le punta delle mie dita. Quel rituale aveva il medesimo effetto dell’autoipnosi. Durante il primo dei miei molti viaggi scoprii l’inganno del tempo. Il mio sguardo seguiva una nuova venatura sul coperchio della scatola quando ad un tratto avvertii un leggero calore sul palmo della mano che reggeva l’oggetto. Il disegno cambiò impercettibilmente assomigliando vagamente a una di quelle immagini che si trovano nei libri di astronomia; un intrico di astri, una nebulosa, un angolo dello spazio infinito… La mia mano, pilotata da uno strano impulso, sollevò delicatamente il coperchio. All’interno non mi aspettavo più di trovare gli oggetti che vi avevo riposti, e non fui deluso. Vi era prima oscurità, rotta ad intermittenza da luci lontane. In qualche modo era come se guardassi attraverso un dispositivo di alta tecnologia, una sorta di tavoletta pc capace di proiettare immagini tridimensionali. Viaggiai per molte ore in uno spazio remoto, sorvolando pianeti deserti, a volte disseminati da strane costruzioni, di sicuro non umane. Vidi stelle esplodere e nascere dalle loro ceneri, e scie di luce risucchiate da buchi neri, in una danza cosmica scandita dal ritmo di flauti lontani. Una nuova consapevolezza iniziò a crescere in me, ridestata dal sogno oppure innescata direttamente dal potere della scatola. Non ricordo quando la mia mano ripose il coperchio al suo posto, interrompendo quel bizzarro viaggio nelle profondità del cosmo, ma è indelebile nella mia mente l’immagine del riquadro dell’orologio digitale sulla scrivania che segnava le 13 e 06. Appena un minuto era passato da quando avevo estratto la scatola dal cassetto, eppure erano sembrate ore…
I viaggi si ripeterono regolarmente ogni giorno d’ufficio alla solita ora. Durante il fine settimana pensavo alla scatola senza mai esserne disturbato. Mi sentivo confortato da una strana accettazione ed attendevo l’ora di pranzo del lunedì successivo indossando serenamente le mie vesti di marito, collega e uomo del terzo millennio. Quei viaggi stavano regalandomi un conforto nuovo, sussurrandomi l’inutilità di tutto, l’insignificante danza dell’umanità al cospetto dei Grandi Antichi. Lentamente, viaggio dopo viaggio, il drappo veniva scostato, ed io ero finalmente in grado di capire…
Arrivò giugno, Emanuela ed io eravamo sposati da quasi tre mesi e le cose all’apparenza procedevano come da copione. Anche l’ultimo test di gravidanza aveva dato esito negativo ma lei continuava ad essere ottimista. Io mostravo la solita complicità ma dentro sentivo ben poco. La nascita di un figlio mi appariva tanto insignificante quanto la mia vita o la vita di ogni altro uomo. La conoscenza portatami dai viaggi della scatola mi aveva elargito la pace che molti rincorrono senza successo con le discipline più in voga del momento; yoga, meditazione, religioni orientali e via così… Una pace diversa, certo, ma altrettanto liberatoria. Una pace che non mi sarei mai aspettato potesse finire da un momento all’altro per un qualcosa di inaspettato riguardante gli affari del mio piccolo ed insulso mondo.
Emanuela mi tradiva con un collega di lavoro. Lo faceva già prima del matrimonio in maniera regolare, ogni giovedì sera dopo la palestra. Invece di starci un’ora e mezza rimaneva solo per il corso di bodypump, appena quarantacinque minuti, poi saltava sul suo scooter per raggiungere l’appartamento del tale, un essere insignificante che lei usava esclusivamente per distrarsi. La scoprii passando per caso sotto il suo palazzo, un giovedì sera che avevo fatto tardi al lavoro e che, per strane coincidenze, mi ero deciso a percorrere una strada diversa da quella abituale. La vidi scendere dal motorino, levarsi il casco e con estrema naturalezza suonare a un citofono e scomparire dentro un portone. Quel bizzarro comportamento poteva anche avere altre spiegazioni, eppure qualcosa dentro di me mi convinse fin da subito che le cose stavano proprio sembravano. Non mi ci volle molto per scoprire chi era il tipo e che la loro relazione andava avanti da un bel po’. In principio la cosa mi sfiorò appena, rapito com’ero dai viaggi e dalla mia nuova consapevolezza, eppure un tarlo s’insinuò sottopelle, come un nervo infiammato alla radice di un dente, che in silenzio cresce d’intensità. Cercavo di convincermi che tutta quella storia, come d’altronde il resto, non avesse la benché minima importanza, ciononostante quel sordo pensiero di lei tra le braccia di lui tornò assiduamente a tormentarmi finanche nei miei momenti di quiete più intensa, prima, dopo e durante i miei incredibili viaggi. Questo tumulto emozionale avveniva nella completa discrezione, mentre continuavo a fare la mia parte dentro l’amara commedia che era diventata la mia vita. Lei non si accorse mai che io sapevo, rapita da tutte le sue distrazioni, le amiche, il lavoro, la palestra, lo shopping e i social network.
Sperai che col tempo la cosa si acquietasse, ma sapevo anche che se non fossi intervenuto niente della routine di Emanuela sarebbe mai cambiato e lei avrebbe continuato a fare visita al suo amico puntualmente ogni giovedì sera, salvo imprevisti. Avrei potuto confrontare lui, mai non sarei riuscito sicuramente ad estirpare il problema alla radice. Dovevo pensare a qualcosa, ma la mia mente faceva fatica a formulare un qualsiasi progetto al di fuori del mio teatrino quotidiano. La pace che avevo trovato grazie ai viaggi era stata contaminata da uno stupido impulso di gelosia, e non riuscivo a fare a meno di odiarmi per questo.
I viaggi intanto mi portavano sempre più lontano. Ebbi modo di conoscere razze superiori, creature appartenenti a nuove dimensioni, abitatori di pianeti lontani, che trovavo, malgrado le loro forme dure ed asimmetriche, meravigliosamente armonici. Una sera mi chiesi se quelle incredibili creature potevano risolvere il mio piccolo ed insignificante problema. Certo, forse la risposta stava proprio nella mia scatola…
Era la sera del solstizio d’estate. Emanuela dormiva profondamente accanto a me. La notte era insolitamente calda e il ventilatore ronzava con insistenza al bordo del letto, sollevando impercettibilmente la sua vestaglia di raso. Mi alzai in silenzio e raggiunsi il soggiorno dove avevo poggiato la borsa da lavoro nella quale usavo riporre il mio portatile. Quella sera invece avevo lasciato il computer in ufficio e al suo posto avevo riposto il mio prezioso oggetto…
Come molte altre cose che adesso ho la fortuna di conoscere, anche se non so bene come, seppi fin da subito cosa dovevo fare. Tornai in camera con la scatola che già aveva incominciato a scaldarsi tra le mie mani, come usava fare all’inizio di ogni viaggio. La poggiai sul letto, dalla mia parte, e senza esitare un attimo ne sollevai il coperchio. Dentro vi era l’oscurità del cosmo, ma in un angolo era percepibile l’avvicinarsi di una supernova. Lasciai la scatola aperta e uscii dalla camera, lanciando un’ultima occhiata dall’altro lato del letto, dove mia moglie ignara dormiva il suo ultimo sonno.
Conquistata l’uscita, non richiusi completamente la porta. Il desiderio di osservare il prodigio che stava per compiersi vinse sulla prudenza. Guardai dall’uscio l’oscurità che fuoriuscì da quel piccolo contenitore di marmo, un cono d’ombra distinguibile nel riverbero argenteo proiettato dalla luce della luna, che come un occhio alieno si affacciava dalla finestra. Dall’ombra emerse la cosa, meravigliosa nel suo lento strisciare, apparentemente grottesca eppure avvenente, per via della sua pelle d’ebano ricoperta di fasce muscolari. Fluttuando a pochi centimetri dalle lenzuola, piegandosi in modo quasi rituale sul corpo di Emanuela, la cosa estrasse, da una larga bocca munita di una moltitudine di piccoli denti aguzzi, una lingua massiccia e grondante, lunga abbastanza da poterla attorcigliare attorno alla gola della sua vittima. In quell’istante lei spalancò gli occhi, ma la follia le divorò il grido che aveva in gola. La cosa si mosse rapida verso la scatola, comprimendosi contro le sue pareti di appena venti centimetri e trascinandosi dietro la sua preda. Tutto si era svolto in un silenzio agghiacciante e pulito. Io rientrai dentro la camera respirando regolarmente, cercando di riprendermi da uno stato di semi-estasi. Chiudendo il coperchio della scatola riuscii a scorgere di sfuggita il paesaggio di un nuovo pianeta, e una figura agile e contorta che trascinava, dentro la cavità oscura di un cratere, una giovane donna in vestaglia da notte.
Riposi la scatola nella borsa, chiusi gli occhi e la pace tornò ad adagiarsi sul mio cuore.
“Una questione davvero insignificante…” pensai, prima di essere finalmente rapito da un sonno candido ed ovattato.