tag:blogger.com,1999:blog-3424856099216426982024-03-05T21:30:37.239-08:00Racconti dell'IgnotoHorror, Cthulhu & Twilight ZoneGM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.comBlogger32125tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-19966442995469779582013-03-26T07:41:00.000-07:002013-03-26T07:41:46.313-07:00UNA QUESTIONE INSIGNIFICANTE<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi5PvRRt27VUlAFqI96URH_KPtpR1SwoBQGT1f52O9zyNL5SFlJixHQJtSNpQQu_1d4yM3Zg1mR4R265YJGqkPEqfil9Pw9wJa5w01BfOsamu6d4cqSvDUZjHwyV7xWA_N40KMyUd6pYv6O/s1600/una-questione-insignificante.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="218" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi5PvRRt27VUlAFqI96URH_KPtpR1SwoBQGT1f52O9zyNL5SFlJixHQJtSNpQQu_1d4yM3Zg1mR4R265YJGqkPEqfil9Pw9wJa5w01BfOsamu6d4cqSvDUZjHwyV7xWA_N40KMyUd6pYv6O/s320/una-questione-insignificante.jpg" width="320" /></a></div>
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<i>di GM Willo</i><br />
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Avevamo fatto i nostri progetti, come ogni coppia passati i trenta. Emanuela voleva due figli, io mi sarei fermato al primo, ma non dissi niente perché le cose dovevano ancora mettersi in moto e non c’era alcun bisogno di essere troppo previdenti. Prima di tutto il matrimonio, non perché credevamo nella sacralità del voto, ma per la comune idea di rassicurare i figli, come se un pezzo di carta fosse sufficiente… Adesso, dopo tutto quello che è successo, trovo buffa quella nostra complicità, quella voglia frenetica di disegnare il nostro mondo sin nei minimi particolari. Eppure ci credevo, come credevo alle cose normali che mi accadevano tutti i giorni, la mia rassicurante quotidianità fatta di cappuccini e cornetti, di chiacchiere con gli amici del bar e di giornali lasciati sugli sportelli dei freezer per i gelati. Credevo alla puntualità con cui mi recavo in ufficio alla mattina, alle tiepide battute insieme ai colleghi, per insaporire i rapporti, alle discussioni sportive durante la pausa pranzo e ai regolari messaggi di lei, che mi arrivavano sul cellulare per ricordarmi quanto ero fortunato di conoscere una persona dolce e sensibile come Emanuela. Credevo a tutto questo, come un miliardo di uomini come me. Ma il dolore è capace di aprire porte che non avresti mai pensato di avere. Esistono angoli remoti dentro di noi, invasi da ragni ed altri insetti, in cui la luce è bandita. I più vivono una vita sospesa, galleggiando vicino ai piani bassi. Pochi si elevano oltre le nubi, per lasciarsi intrattenere dagli abbagli del sole. Solo chi ha questa fortuna vive con il rischio di cadere, e solo una caduta dall’alto può farti precipitare nelle profondità in cui dimorano gli aracnidi… Ho visto quei luoghi dentro di me, ho aperto le porte proibite, ho anelato di abbandonare la mia anima agli eccessi e lasciarmi cullare dalla follia. Ho pensato che la colpa fosse sua, ma in verità non esistono colpe. Siamo piccoli pedoni su una scacchiera sconfinata, dentro un gioco ad infinite dimensioni.<br />
Per il viaggio di nozze scegliemmo la Turchia. Era aprile ed entrambi preferivamo evitare le temperature proibitive dell’estate, perciò l’idea di non perdere neanche uno scorcio della splendida Istanbul, scattare qualche migliaio di foto e godere spensieratamente l’atmosfera della città dei due continenti ci dissuase dall’aspettare le ferie di luglio. Fu in un piccolo mercatino della metropoli turca che acquistai l’oggetto che cambiò completamente la mia vita e la percezione del mondo in cui viviamo. Una scatola, una semplice scatola quadrata ricavata da un blocco di marmo di una ventina di centimetri di lato, un portagioelli, niente più, o almeno questo sembrava. Non aveva decorazioni ma le venature del marmo creavano dei disegni naturali davvero stupefacenti, che in principio non riuscii ad identificare. Ve n’era soprattutto uno sul coperchio che ricordava la forma di un insetto, o di un crostaceo… Tutto sommato l’oggetto non era molto bello, ed infatti lo intravidi in un angolo della bancherella, semicoperto dalle altre cianfrusaglie, ma per qualche oscura ragione ne fui affascinato. Fin dal principio Emanuela, come era suo solito fare, manifestò accanitamente il suo disgusto e finimmo per litigare perché, per quanto assurda fosse la questione, io non avevo alcuna intenzione di lasciare il mercato senza quella scatola. Le promisi che l’avrei portata in ufficio per usarla come portaoggetti e finalmente raggiungemmo un accordo. Solo adesso mi spiego quel suo incontenibile senso di rigetto nei confronti del mio curioso acquisto, come se un senso assopito in lei si fosse ridestato d’improvviso.<br />
Tornati in Italia portai come promesso la scatola in ufficio ma evitai, per qualche oscuro motivo, di farla vedere ai miei colleghi. La usai come portaoggetti mettendoci dentro delle biro, alcune graffette e una chiavetta usb, ma la nascosi dentro l’ultimo cassetto della scrivania che era sempre vuoto. Ogni tanto mi prendeva voglia di guardarla, di rigirarmela tra le mani, in un gioco tutto mio, cercando di interpretare i disegni delle sue venature. A volte vi vedevo il mare, altre volte la sagoma di una città in rovina, altre ancora gli appendici contorti di strane creature insettoidi. Non so come mi sovvenne quell’idea, forse presa in prestito dalle mie letture giovanili, ma mi tornò in mente assiduamente durante il periodo antecedente i viaggi.<br />
Tra me ed Emanuela le cose andavano come da programma. Lei aveva smesso di usare la pillola, o almeno così diceva, e si era presa un giorno libero in più alla settimana per sistemare la nuova casa, un appartamento poco fuori dal centro che avevamo affittato insieme un paio di settimane prima del matrimonio, e che aveva una camera in più per il futuro, o i futuri, membri della nostra famigliola. La sera, rientrando dall’ufficio, la vedevo serena ed appagata. Mangiavamo veloci una pasta in cucina, io parlavo distrattamente del mio lavoro, lei dei suoi amici su facebook, poi mi andavo a fare una doccia perché conoscevo il rituale: dovevamo provare ogni giorno durante il periodo più fertile, perciò facevamo l’amore, sempre più in maniera meccanica, ed infine ci lasciavamo cullare spensieratamente dallo schermo della nuova TV al plasma appesa davanti al nostro letto. Tutto sommato la prevedibilità di quella vita non mi disturbava. Accettavo tutto con una sorridente apatia, ma ogni giorno che passava mi scoprivo a desiderare con crescente fervore quel momento da solo in ufficio, durante la pausa pranzo delle una. I miei colleghi uscivano in fretta dai loro loculi per guadagnare la sala mensa o il bar di fronte, ma io rimanevo ancora cinque minuti, fino a quando gli scalpiccii degli impiegati si perdevano nella distanza lasciandomi al mio momento. Allora aprivo lentamente l’ultimo cassetto della scrivania, afferravo la scatola di marmo venata e mi perdevo nei suoi disegni, accarezzandola delicatamente con le punta delle mie dita. Quel rituale aveva il medesimo effetto dell’autoipnosi. Durante il primo dei miei molti viaggi scoprii l’inganno del tempo. Il mio sguardo seguiva una nuova venatura sul coperchio della scatola quando ad un tratto avvertii un leggero calore sul palmo della mano che reggeva l’oggetto. Il disegno cambiò impercettibilmente assomigliando vagamente a una di quelle immagini che si trovano nei libri di astronomia; un intrico di astri, una nebulosa, un angolo dello spazio infinito… La mia mano, pilotata da uno strano impulso, sollevò delicatamente il coperchio. All’interno non mi aspettavo più di trovare gli oggetti che vi avevo riposti, e non fui deluso. Vi era prima oscurità, rotta ad intermittenza da luci lontane. In qualche modo era come se guardassi attraverso un dispositivo di alta tecnologia, una sorta di tavoletta pc capace di proiettare immagini tridimensionali. Viaggiai per molte ore in uno spazio remoto, sorvolando pianeti deserti, a volte disseminati da strane costruzioni, di sicuro non umane. Vidi stelle esplodere e nascere dalle loro ceneri, e scie di luce risucchiate da buchi neri, in una danza cosmica scandita dal ritmo di flauti lontani. Una nuova consapevolezza iniziò a crescere in me, ridestata dal sogno oppure innescata direttamente dal potere della scatola. Non ricordo quando la mia mano ripose il coperchio al suo posto, interrompendo quel bizzarro viaggio nelle profondità del cosmo, ma è indelebile nella mia mente l’immagine del riquadro dell’orologio digitale sulla scrivania che segnava le 13 e 06. Appena un minuto era passato da quando avevo estratto la scatola dal cassetto, eppure erano sembrate ore…<br />
I viaggi si ripeterono regolarmente ogni giorno d’ufficio alla solita ora. Durante il fine settimana pensavo alla scatola senza mai esserne disturbato. Mi sentivo confortato da una strana accettazione ed attendevo l’ora di pranzo del lunedì successivo indossando serenamente le mie vesti di marito, collega e uomo del terzo millennio. Quei viaggi stavano regalandomi un conforto nuovo, sussurrandomi l’inutilità di tutto, l’insignificante danza dell’umanità al cospetto dei Grandi Antichi. Lentamente, viaggio dopo viaggio, il drappo veniva scostato, ed io ero finalmente in grado di capire…<br />
Arrivò giugno, Emanuela ed io eravamo sposati da quasi tre mesi e le cose all’apparenza procedevano come da copione. Anche l’ultimo test di gravidanza aveva dato esito negativo ma lei continuava ad essere ottimista. Io mostravo la solita complicità ma dentro sentivo ben poco. La nascita di un figlio mi appariva tanto insignificante quanto la mia vita o la vita di ogni altro uomo. La conoscenza portatami dai viaggi della scatola mi aveva elargito la pace che molti rincorrono senza successo con le discipline più in voga del momento; yoga, meditazione, religioni orientali e via così… Una pace diversa, certo, ma altrettanto liberatoria. Una pace che non mi sarei mai aspettato potesse finire da un momento all’altro per un qualcosa di inaspettato riguardante gli affari del mio piccolo ed insulso mondo.<br />
Emanuela mi tradiva con un collega di lavoro. Lo faceva già prima del matrimonio in maniera regolare, ogni giovedì sera dopo la palestra. Invece di starci un’ora e mezza rimaneva solo per il corso di bodypump, appena quarantacinque minuti, poi saltava sul suo scooter per raggiungere l’appartamento del tale, un essere insignificante che lei usava esclusivamente per distrarsi. La scoprii passando per caso sotto il suo palazzo, un giovedì sera che avevo fatto tardi al lavoro e che, per strane coincidenze, mi ero deciso a percorrere una strada diversa da quella abituale. La vidi scendere dal motorino, levarsi il casco e con estrema naturalezza suonare a un citofono e scomparire dentro un portone. Quel bizzarro comportamento poteva anche avere altre spiegazioni, eppure qualcosa dentro di me mi convinse fin da subito che le cose stavano proprio sembravano. Non mi ci volle molto per scoprire chi era il tipo e che la loro relazione andava avanti da un bel po’. In principio la cosa mi sfiorò appena, rapito com’ero dai viaggi e dalla mia nuova consapevolezza, eppure un tarlo s’insinuò sottopelle, come un nervo infiammato alla radice di un dente, che in silenzio cresce d’intensità. Cercavo di convincermi che tutta quella storia, come d’altronde il resto, non avesse la benché minima importanza, ciononostante quel sordo pensiero di lei tra le braccia di lui tornò assiduamente a tormentarmi finanche nei miei momenti di quiete più intensa, prima, dopo e durante i miei incredibili viaggi. Questo tumulto emozionale avveniva nella completa discrezione, mentre continuavo a fare la mia parte dentro l’amara commedia che era diventata la mia vita. Lei non si accorse mai che io sapevo, rapita da tutte le sue distrazioni, le amiche, il lavoro, la palestra, lo shopping e i social network.<br />
Sperai che col tempo la cosa si acquietasse, ma sapevo anche che se non fossi intervenuto niente della routine di Emanuela sarebbe mai cambiato e lei avrebbe continuato a fare visita al suo amico puntualmente ogni giovedì sera, salvo imprevisti. Avrei potuto confrontare lui, mai non sarei riuscito sicuramente ad estirpare il problema alla radice. Dovevo pensare a qualcosa, ma la mia mente faceva fatica a formulare un qualsiasi progetto al di fuori del mio teatrino quotidiano. La pace che avevo trovato grazie ai viaggi era stata contaminata da uno stupido impulso di gelosia, e non riuscivo a fare a meno di odiarmi per questo.<br />
I viaggi intanto mi portavano sempre più lontano. Ebbi modo di conoscere razze superiori, creature appartenenti a nuove dimensioni, abitatori di pianeti lontani, che trovavo, malgrado le loro forme dure ed asimmetriche, meravigliosamente armonici. Una sera mi chiesi se quelle incredibili creature potevano risolvere il mio piccolo ed insignificante problema. Certo, forse la risposta stava proprio nella mia scatola…<br />
Era la sera del solstizio d’estate. Emanuela dormiva profondamente accanto a me. La notte era insolitamente calda e il ventilatore ronzava con insistenza al bordo del letto, sollevando impercettibilmente la sua vestaglia di raso. Mi alzai in silenzio e raggiunsi il soggiorno dove avevo poggiato la borsa da lavoro nella quale usavo riporre il mio portatile. Quella sera invece avevo lasciato il computer in ufficio e al suo posto avevo riposto il mio prezioso oggetto…<br />
Come molte altre cose che adesso ho la fortuna di conoscere, anche se non so bene come, seppi fin da subito cosa dovevo fare. Tornai in camera con la scatola che già aveva incominciato a scaldarsi tra le mie mani, come usava fare all’inizio di ogni viaggio. La poggiai sul letto, dalla mia parte, e senza esitare un attimo ne sollevai il coperchio. Dentro vi era l’oscurità del cosmo, ma in un angolo era percepibile l’avvicinarsi di una supernova. Lasciai la scatola aperta e uscii dalla camera, lanciando un’ultima occhiata dall’altro lato del letto, dove mia moglie ignara dormiva il suo ultimo sonno.<br />
Conquistata l’uscita, non richiusi completamente la porta. Il desiderio di osservare il prodigio che stava per compiersi vinse sulla prudenza. Guardai dall’uscio l’oscurità che fuoriuscì da quel piccolo contenitore di marmo, un cono d’ombra distinguibile nel riverbero argenteo proiettato dalla luce della luna, che come un occhio alieno si affacciava dalla finestra. Dall’ombra emerse la cosa, meravigliosa nel suo lento strisciare, apparentemente grottesca eppure avvenente, per via della sua pelle d’ebano ricoperta di fasce muscolari. Fluttuando a pochi centimetri dalle lenzuola, piegandosi in modo quasi rituale sul corpo di Emanuela, la cosa estrasse, da una larga bocca munita di una moltitudine di piccoli denti aguzzi, una lingua massiccia e grondante, lunga abbastanza da poterla attorcigliare attorno alla gola della sua vittima. In quell’istante lei spalancò gli occhi, ma la follia le divorò il grido che aveva in gola. La cosa si mosse rapida verso la scatola, comprimendosi contro le sue pareti di appena venti centimetri e trascinandosi dietro la sua preda. Tutto si era svolto in un silenzio agghiacciante e pulito. Io rientrai dentro la camera respirando regolarmente, cercando di riprendermi da uno stato di semi-estasi. Chiudendo il coperchio della scatola riuscii a scorgere di sfuggita il paesaggio di un nuovo pianeta, e una figura agile e contorta che trascinava, dentro la cavità oscura di un cratere, una giovane donna in vestaglia da notte.<br />
Riposi la scatola nella borsa, chiusi gli occhi e la pace tornò ad adagiarsi sul mio cuore.<br />
“Una questione davvero insignificante…” pensai, prima di essere finalmente rapito da un sonno candido ed ovattato.<br />
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GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-33362623076125237492010-08-28T05:30:00.001-07:002010-08-28T05:30:40.197-07:00VELDULE MISTE E LISO<a href="http://willoworld.wordpress.com/files/2009/05/veldule-miste-e-liso.jpg"><img class="alignnone size-full wp-image-1324" title="veldule-miste-e-liso" src="http://willoworld.wordpress.com/files/2009/05/veldule-miste-e-liso.jpg" alt="veldule-miste-e-liso" width="470" height="288" /></a><br /><br />La città é una maschera grigia di nebbia. Copre ogni cosa col suo silenzio. Sembra dormire la città, sotto una soffice coltre. Ma la città non dorme mai, nemmeno alle quattro del mattino, in quelle nottate invernali lunghe e gelide. Neanche i gatti per i vicoli, i semafori lampeggiano d’arancio, un neon rotto e una sirena in lontananza. La città è immobile, ma respira ancora, come un vecchio randagio che chiede l’elemosina alla stazione, una serpe in agguato, un felino pronto a scattare. La città diventa pericolosa quando dorme. La abitano strane creature, animali della notte, girano nascosti nelle ombre, vergognandosi delle proprie deturpazioni, quelle dell’anima s’intende.<br />Poi ci sono quelli come me, che osservano, che aspettano, che fumano. Un’altra sigaretta, mentre l’orologio segna le quattro e diciannove. Il posacenere dell’auto ne è ricolmo. Guardo oltre la carreggiata, il vicolo buio, quello sul retro del ristorante cinese. Distinguo appena le sagome di Chon e del suo scagnozzo… grembiuli e cappelli da cuochi. Aspettano le provviste.<br />Il ragazzo è appena stato assunto alla pasticceria all’angolo della strada. Ha solamente diciassette anni e dovrebbe andare a scuola, ma sono tempi difficili, e poi il padre è disoccupato da quasi due anni. Passeggia ad ampie falcate sul marciapiede opposto. Lo vedo approssimarsi al vicolo, quello di Chon. Che sia lui il piatto giorno? Meglio non farsi sorprendere…<br />Scendo dall’auto e divento un’ombra sgusciante che attraversa la strada, raggiungo il lato opposto e mi fermo dietro una vettura parcheggiata a ridosso del vicolo. Nessuno mi nota, e ringrazio la nebbia, sempre lei, sorella e puttana di questa assurda città. La città dormiente. La città sognate. La città in balia del suo prossimo incubo.<br />Il ragazzo è risucchiato dentro al vicolo con una rapidità impressionante. Faccio fatica a distinguere i movimenti, ma risaltano all’occhio le lame dei coltelli da cucina. Un urlo strozzato e tutto è finito. A questo punto entro in gioco io.<br />«Quanti involtini pensi di farci, Chon?»<br />L’automatica è ben in vista e punta direttamente alla faccia gialla del cuoco.<br />Il chinaman sbraita nella sua lingua, lo scagnozzo mi guarda con il terrore negli occhi, poi afferra la vittima e la trascina dentro le oscurità del vicolo.<br />«Quanto vuoi, sbillo meldoso?»<br />«Beh, per te farò un buon prezzo. Tre testoni e tengo la bocca chiusa.»<br />«Bastaldo!» impreca il cuoco. Poi estrae dalla tasca un mazzetto di banconote e me ne allunga sei di quelle grandi.<br />«É un piacere fare affari con te, chinaman!»<br />«Non posso dile attlettanto…» sbuffa lui.<br />Sto quasi per andarmene quando mi viene in mente di chiedergli una cosa.<br />«Com’è che lo cucini?»<br />«Con veldule miste e liso…»<br />«Buono… lasciamene da parte un piatto, mi raccomando!»<br />Ve lo dicevo che erano tempi difficili.GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-12134444446153154282010-08-01T12:44:00.000-07:002010-08-01T12:45:54.165-07:00IL LUNGO INVERNO<a href="http://lagiostradidante.files.wordpress.com/2010/03/15.jpg"><img class="alignnone size-full wp-image-35" title="15" src="http://lagiostradidante.files.wordpress.com/2010/03/15.jpg" alt="" width="460" height="307" /></a><br /><br /><em><strong>di Jonathan Macini</strong></em><br /><br />Sorseggio distrattamente un tè al gelsomino addolcito con una punta di miele d'acacia, per ammazzare il freddo che mi si è infilato nelle ossa. Sono rientrato in casa da poco. È mattina presto ed in veranda ho dato di sfuggita un'occhiata al termometro, che anche oggi se ne rimarrà abbondantemente sotto lo zero. L'inverno non ne vuole sapere di finire. L'inverno al nord è troppo lungo, e se non ci sei abituato ti può prendere uno sbalzo di liquidi, come dice il dottore. Gli sbalzi di liquidi, facile dare la colpa a loro. Chissà come se la riderebbe Nynke, se fosse qui. Ma lei non c'è... non c'è più.<br />È la luce che ti frega. Sei, sette ore al giorno massimo, e poi il buio. La lunga notte del nord che ti divora dentro, mentre il vento incalza sulle imposte e la neve ottunde i rumori della valle. La TV ti riversa addosso le solite stupidaggini ma tu continui a guadarla speranzoso. Forse succederà qualcosa... forse il vento calerà e la neve incomincerà a sciogliersi. Lei ti chiede se ti va un caffè, la guardi sparire in cucina, bella ma distante per via del freddo. Non ti tira più l'uccello e non sai perché, se per via dell'inverno e degli sbalzi di liquidi, oppure per gli anni di stasi che si sono accumulati come la polvere sulla cornice della nostra prima foto insieme.<br />Osservo il rivolo di fumo che s'innalza dalla tazza del tè e guardo fuori, dove ancora uno strato intatto di una decina di centimetri di neve ricopre il tetto del garage. Anche per oggi è prevista una nevicata, tanto per cambiare. Il pick-up l'ho parcheggiato fuori, perché non avevo voglia di tirar su la porta-serranda, che ogni volta che ci provo mi si gelano le mani. Mi sarebbe piaciuto metterne uno elettrico. Gliel'ho confessato più volte alla piccola Nynke, e lei mi guardava con quei suoi occhi da cerbiatta e mi rispondeva “certo, perché no!”. Ma poi, tramortito da un nuovo attacco di apatia, lasciavo perdere. La scusa era quella di non spendere i soldi per la vacanza, e proprio di una vacanza avevo bisogno, Spagna, Grecia, un posto con il sole vero, non come questo qui che pare disegnato dietro un drappo di grigiore.<br />Non riesco a ricordarmi il motivo del litigio di ieri sera. La cosa mi mette agitazione, e pensare che finalmente ero riuscito a calmarmi. Che diavolo è successo? Si, certo, lo sbalzo di liquidi, ma quello è venuto dopo. La scintilla l'ha innescata lei, ne sono sicuro. Ma cos'era? Gli stivali pieni di neve sporca sul tappeto? La tazza del cesso alzata? No, forse era il tappo del succo di mango, che mi dimentico sempre di richiudere. Certo, è stato quello l'inizio di tutto. Dannato mango! Vabbè, ormai è andata...<br />Il gelo delle ossa si è dissolto nella carne, grazie al tè al gelsomino. Scaccio via dalla testa un pensiero irritante, la paura di non aver scavato una buca abbastanza profonda, poi mi metto a lavoro. C'è da pulire il sofà, le tende e il tappeto che piaceva tanto a Nynke, e rimettere nella cassetta degli utensili il cacciavite che le ho infilzato nella gola.GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-59382835355575314622010-02-13T02:19:00.000-08:002010-02-13T02:20:54.235-08:00SEBASTIAN CLAW: La Fine<a href="http://willoworld.wordpress.com/files/2008/09/byakhee_by_tonyhough.jpg"><img class="alignnone size-full wp-image-353" title="byakhee" src="http://willoworld.wordpress.com/files/2008/09/byakhee_by_tonyhough.jpg" alt="" height="460" width="344" /></a><br /><br /><span class="postbody">Il caffè è più forte del solito. La notte è stata lunga, ma ha dato i suoi frutti. Tornerò alla baia nel pomeriggio, per finire il lavoro.<br />La Spirale era chiamata. Il più influente ed aberrante agglomerato di individui che abbia mai messo piede a Providence, o per quello che ne so, in tutto lo stato. Provo ancora ribrezzo nel ricordare le cose che si muovevano sopra la spiaggia, mentre quel gruppo di scellerati si riuniva dentro le grotte, a salmodiare le parabole di un libro perverso. Ne succedono di cose strane a soli venti chilometri dalla città.<br />La notte nascondeva l’orrore. Le creature coprivano le stelle coi loro corpi gibbosi, assurda progenie di insetti e corvi, ed io non potevo continuare ad ingannare la mia sanità mentale. Ho alzato gli occhi quel tanto per non dormire più una sola notte.<br />Dopo aver rovesciato sulla sabbia i resti di una misera cena a base di tonno in scatola e bourbon, mi sono mosso velocemente oltre gli scogli. Dalla caverna fuoriusciva una luce malata, la stessa che vidi quella notte a casa del professore. Mi sembrano passati secoli.<br />Sapevo cosa stava succedendo là dentro. Sapevo del tentativo di traduzione di quel testo cinese. La Spirale era piena di musi gialli, ma non erano loro a comandare. C’era Sunshade, l’uomo con la frusta. Lo intravidi alla prima delle adunanze che si tenevano in città. Quasi certamente era lui la mente dietro tutta la combriccola. Poi c’era Amelia, sacerdotessa del senza nome. Si, proprio lui. Cosa credete che ci facessero più di cento illustri personaggi del New England in una grotta a venti chilometri da Providence, insieme a una mandria di cinesi e a dei corvinsetti giganti? Chiamavano lui, che non si potrebbe nominare. Hastur…<br />Il fascio di dinamite era avvolto nei giornali. Avevo paura che l’aria salmastra potesse compromettere l’effetto dell’esplosivo. L’entrata della grotta non era molto ampia. Il piano era quello di bloccarli là dentro; sepolti vivi. Neanche i loro amici corvi sarebbero riusciti a tirarli fuori, e senza di loro l’evocazione non sarebbe stata mai completa.<br />Ho piazzato il pacchetto un paio di metri oltre la soglia. Poi mi sono allontano quel tanto da rimanere incolume. Un colpo, un solo dannatissimo colpo. La mano era ferma, nonostante il whisky che mi girava nelle vene. Il dito sul grilletto. Un bacio di buon augurio alla canna del mio fedele shotgun., e poi… bang!<br />Devo tornare a finire il lavoro. Ve l’ho già detto. Devo accertarmi che non siano riusciti a scappare. Questo è il mio ultimo lavoro, e voglio che sia fatto bene.<br />Si, avete capito bene. Queste sono le ultime righe di Randy Coleman, ovvero Sebastian Claw. Non tornerò in questo maledetto monolocale, a passare le notti con gli occhi sbarrati, la boccia di whisky in una mano ed il fucile a canne mozze nell’altra. Basta.<br />È l’ora di farla finita.<br />Vi lascio alle follie di questo mondo. Ho cercato di ostacolarle, per quanto potevo. Ho venduto cara la pelle. Ho fatto assaggiare un po’ di sano piombo.<br />Adesso però voglio dormire.<br />Un ultima cosa…<br />…poi la spiaggia, il mare, l’abisso.<br />Addio.<br /><br /><span style="font-weight: bold;">OUTRO</span><br /><br />È stato rinvenuto un corpo nella baia. Era il mio...<br /> ...o almeno così hanno creduto.<br />Che lo credano pure. La polizia, i miei vicini, le creature assurde che vagano libere per il New England, anche i lettori di questo folle diario. A me sta bene così. Io non mi lamento. Galleggio nell’acqua sporca nel mio<br />impermeabile grigio, ma tengo lo sguardo puntato verso il fondo... casomai qualcuno o qualcosa decidesse di<br />salire in superficie.<br />Ho sempre il mio fucile a canne mozze. Lo tengo stretto nella mano destra. Il rigor mortis può fare anche questo. Non ci credete? Allora vi svelerò un piccolo segreto: non è morto ciò che in eterno può attendere, e col passare di strani eoni, anche la morte muore. E questo vale per tutti, anche per i cacciatori di incubi come me.<br />Il mio nome è Sebastian Claw. Sono un cadavere che galleggia nella baia di Providance, e ho ancora del piombo da commissionare. Lo devo al professore, al povero Melvin, al vecchio Bob, e soprattutto a Randy Coleman.<br /><br /></span><div style="text-align: right;"><span class="postbody"><span style="font-weight: bold; font-style: italic;">Jonathan Macini - Da un idea del 1995 – Riveduto e corretto nel 2008</span></span><br /></div>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-88311243451080472912010-02-01T00:41:00.000-08:002010-02-01T00:43:02.556-08:00SEBASTIAN CLAW: Bob<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi4j2s3h_tumjOXcdljh-T4fppbXctvFLCGrGikWGYJRmDDIyYAUFH1uJdqrpKtf1h4nHCohppy1TGbUFrQaAGpoU4iuE2pD8VviqPTh3TNtSvLgjxs8sZp6_Jgpn5XFP-NsEaH42o0fJ4/s320/Sebastian+Claw+-+Bob.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 232px; height: 94px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi4j2s3h_tumjOXcdljh-T4fppbXctvFLCGrGikWGYJRmDDIyYAUFH1uJdqrpKtf1h4nHCohppy1TGbUFrQaAGpoU4iuE2pD8VviqPTh3TNtSvLgjxs8sZp6_Jgpn5XFP-NsEaH42o0fJ4/s320/Sebastian+Claw+-+Bob.jpg" alt="" border="0" /></a><span class="postbody">Le fronde degli alberi, i rumori della città, una quarantaquattro magnum sulla scrivania accanto a un letto d’ospedale, un vecchio che farnetica sotto le coperte, il fetore della follia che aleggia nella stanza. Immagini di una scenografia ammorbata, l’overture che annuncia l’entrata in scena di creature idiote, dimoranti negli abissi del cosmo.<br />«Bob, ti ho portato quello che mi hai chiesto…»<br />Per un istante lo sguardo del vecchio divenne lucido. Guardò prima me, poi la cosa sulla scrivania, un oggetto di freddo metallo che risucchiava la luce.<br />«Grazie Sebastian. Grazie!»<br />Uscito dalla clinica accesi una sigaretta…<br />… e udii lo sparo.</span>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-82342539427789325082010-01-05T03:10:00.000-08:002010-01-05T03:11:28.651-08:00SEBASTIAN CLAW: La Sacerdotessa<a href="http://willoworld.files.wordpress.com/2008/09/la-sacerdotessa.jpg"><img style="width: 400px; height: 401px;" class="alignnone size-full wp-image-304" title="la-sacerdotessa" src="http://willoworld.wordpress.com/files/2008/09/la-sacerdotessa.jpg" alt="" /></a><br /><br />Maria Luise Demond, conosciuta anche con il nome di Snake Charmer, alta sacerdotessa del tempio. Non che incantasse per davvero i serpenti, anche se forse per un po’ è riuscita ad incantare me. Solo per un po’…<br />L’ho conosciuta un mese fa alla casa di riposo Greendale House, nella periferia di Boston. Ricoveri e orfanotrofi sono i posti ideali per rifornirsi di carne sacrificabile a costi limitati. Gli inservienti si lasciano corrompere facilmente, e poi se scompare un vecchio oppure un orfano ormai non importa più a nessuno. Neanche i giornali ci stanno più dietro, con il crimine organizzato che dilaga in tutto il paese. Certo, per i bambini si fanno prezzi diversi, ma i sacrifici di carne immacolata sono rari, rituali riservati alle alte cariche. Per santificare le loro vomitevoli messe basta una vecchia carcassa.<br />Io ero lì e sapevo bene come andavano quelle cose. Per tre giorni ho bazzicato quell’edificio, un posticino delizioso immerso nel verde, una struttura moderna e ben accessoriata, che prometteva ai suoi inquilini una fine facile e decorosa. Vi abitavano una sessantina di anziani, la maggior parte dei quali ricordava poco o nulla della vita lasciata fuori da quelle mura. Ma c’era anche chi non la smetteva mai di parlare della propria infanzia, come se fosse appena trascorsa. La mente di un uomo è come una macchina difettosa! Se esistesse un dio, dovremo farci risarcire.<br />Greendale House è un mondo fuori dal mondo, una realtà fatta di brusii insensati, medicine e odori pungenti. Un pascolo di carne umana a basso costo. Mi sono finto il legale della signora Thomson, una simpatica vecchietta che ricordava a malapena il suo nome, Elvira. In realtà non dovevo fingere un bel niente. In un’altra vita e in un altro tempo sono stato uno dei tanti avvocati della Città degli Avvocati; Randy Coleman era il mio nome. Di sicuro non un esempio eccelso, ma durante i dieci anni e passa di attività sono riuscito a togliermi qualche bella soddisfazione. Il caso Newman, ad esempio. Quel bastardo se l’era vista davvero brutta. La sedia elettrica non gliela avrebbe tolta nessuno, se non avessi portato all’ultimo appello quel testimone chiave. Com’è che si chiamava? John qualcosa. Il figlio di puttana la sapeva lunga, e alla fine ha parlato. Sicuro che ha parlato…<br />Comunque, ormai è acqua passata. Come ho detto più di una volta, quella era una altra vita. Adesso esiste solo il signor Claw e il suo fedele fucile a canne mozze.<br />Maria Luise faceva finta come me. L’ho inquadrata subito. Il suo fare gentile, la spigliatezza un po’ troppo ostentata con i medici, lo zelante interesse per miss Rogue, la donnina sulla sedia a rotelle della quale si fingeva la nipote. Niente di tutto ciò mi è sfuggito. Era bella, ma di una bellezza blasfema. Non so in che altro modo descriverla. Occhi profondi, due pozzi che sembravano risucchiare la luce. Capelli neri, pettinati alla moda, e una bocca rossa come i gerani che adornavano le terrazze del ricovero.<br />Il terzo giorno la invitai a bere un tè in città. Lei accettò, ed incominciò così. Avrei potuto ucciderla quella notte stessa. Non avevo bisogno di prove per sapere chi era e cosa faceva. Mi era bastato uno sguardo per capirla. Nei suoi occhi dimorava l’assurdità del dio idiota. Azathot viene chiamano, il dimoratore del nulla. Per poco non mi ero perduto in quel suo subdolo gioco, fatto di parole dolci, di baci carnosi, un desiderio incontenibile che inghiotte il libero arbitrio.<br />Ma prendere solo la sua vita sarebbe stata una magra consolazione. Volevo accedere al tempio, eliminare i suoi discepoli, dare alle fiamme i luoghi appestati dalla sua insulsa religione. Così giocai il suo gioco, ma mi tenni da parte l’asso vincente.<br />Facevamo l’amore in un motel del centro. Ormai Boston era diventata la mia nuova casa. Il caos della grande città aiutava a distrarmi. Per un po’ mi è piaciuta, non lo nego, ma a cosa fatta non vedevo l’ora di tornarmene a Providence.<br />Il sesso con lei confermò i miei sospetti. Il modo in cui cercava il piacere, il muoversi silenzioso sopra di me, gli occhi spalancati nel momento catartico, colmi di una alienità disarmante, ed un sorriso famelico che metteva i brividi. Il ricordo del suo corpo perfetto nella penombra di quella camera d’albergo, la finestra aperta ed i suoni della città sotto di noi, lei che camminava sinuosa verso la toilette… immagini che continuano piacevolmente a tormentarmi. Afferrai la borsetta e… bingo! Conteneva una copia del Necronomicon, versione inglese di John Dee, rilegata pregevolmente a mano. La prova che confermava tutte le mie intuizioni. Tra le pagine pergamenate piene di simboli arcani e parole all’apparenza insensate, estrassi un biglietto. Indicava la data ed il luogo dove si sarebbe tenuta la prossima messa. Era l’invito che cercavo.<br />Le fiamme divorarono completamente quel magazzino del porto. Per la polizia è risultato impossibile identificare le decine di corpi carbonizzati recuperati al suo interno. I giornali hanno parlato di clandestini cinesi, di un paio di casse di tabacco secco andate a fuoco, di un tragico incidente. Gli agenti non hanno mai rivelato alla stampa la storia di Maria Luise, trovata riversa in una pozza di sangue a un centinaio di metri dal magazzino, perforata da due proiettili di shotgun esplosi a distanza ravvicinata.<br />Mentre la guardavo correre verso di me, allontanandosi dal fuoco che s’innalzava in alte fiamme alle sue spalle, accendendo la notte del porto, sono riuscito a scorgere per un istante il suo vero volto. Nei suoi occhi ho letto disperazione, incredulità, paura. È stato un attimo, ma non mi sono lasciato ingannare. La pietà è un sentimento che non mi appartiene più.<br />Addio Maria Luise. Aspettami all’inferno. Vedrai, non tarderò!<br /><p style="text-align: right; font-style: italic; font-weight: bold;">Jonathan Macini - 2008<br /></p>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-28054315966701143082009-12-09T01:57:00.000-08:002009-12-09T01:59:09.120-08:00SEBASTIAN CLAW: L’Evocazione<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiBhzLf9f4dhGiRLysDuJ4sNSS91_FJdmuATinlN64LTVIjj40cZIoBJZ3PTn4aPY0JkjmtCYd7esyLHM8gGaPwgn6OYoXdspIBmpr4RIOJw_zRSjK1ZMB4s4A2mjnvwkMtqaQNGeK4HI4/s320/L'evocazione.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 187px; height: 241px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiBhzLf9f4dhGiRLysDuJ4sNSS91_FJdmuATinlN64LTVIjj40cZIoBJZ3PTn4aPY0JkjmtCYd7esyLHM8gGaPwgn6OYoXdspIBmpr4RIOJw_zRSjK1ZMB4s4A2mjnvwkMtqaQNGeK4HI4/s320/L'evocazione.jpg" alt="" border="0" /></a>“Iah! SHUB-NIGGURATH!”<br />“Grande Capro Nero dei Boschi, io Ti chiamo!”<br />L’uomo con la veste gialla s’inginocchio davanti alle alte pietre. Le braci rosse gli illuminavano il volto.<br />“Rispondi al grido del tuo servo che conosce le parole del Potere!”<br />Con la mano compose un gesto.<br />“Sorgi, io Ti dico, dal Tuo sonno e vieni con altri mille!”<br />Un gesto ancora.<br />“Io faccio i Segni, io pronuncio le Parole che aprono la Porta!”<br />“Vieni, io Ti dico, io giro la Chiave, Ora! Cammina ancora una volta sulla Terra!”<br />Si avvicinò alle braci…<br />BANG!<br />Ma fu lo shotgun di Claw a chiudere l’evocazione.<br /><br /><br />101 parole – Jonathan MaciniGM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-58899862745691889662009-11-18T00:41:00.001-08:002009-11-18T00:41:57.963-08:00SEBASTIAN CLAW: Discesa verso l'oblio<a href="http://willoworld.files.wordpress.com/2008/08/discesa-verso-loblio.jpg"><img class="alignnone size-medium wp-image-267" src="http://willoworld.wordpress.com/files/2008/08/discesa-verso-loblio.jpg?w=300" alt="" height="204" width="300" /></a><br /><br /><span class="postbody">Dall’unica finestra di questo dannato monolocale, entra la promessa di un’altra notte bastarda. Il cielo rimane grigio, incolore, ma la dilatazione del giorno è fin troppo percepibile. Siamo alle ore che precedono le ombre, ma non accenderò la lampada della scrivania. Rimarrò sul mio letto, immobile, ad osservare il piombo nel cielo scurirsi, diventare antracite, finché le tenebre non m’inghiottiranno. È tutto quello che desidero per stasera…</span><br /><br />La bottiglia è già arrivata a metà. Il corpo sprofonda dolcemente nel materasso troppo soffice, ma è una bella sensazione. Mi fa sentire coccolato, protetto, come un arnese nella sua confezione. Lo shotgun giace al mio fianco. È carico. Ormai non riesco neanche ad andare in bagno senza di lui. Ne accarezzo il grilletto. Un colpo e via, tutto finito. Il sipario si chiude. Che se la vedi il mondo contro quelle schifezze. Io ho già dato tutto quello che avevo…<br /><br />Un lungo sorso con la testa piegata all’indietro, chiudendo gli occhi, il liquido che mi scorre attraverso i denti, lo sento corrodermi, nel fisico e nella mente. Scardina gli incubi che infettano la ragione, addobbandoli di assurdi festoni. Un rituale scaramantico che mi trascina verso il basso. Riapro gli occhi. La stanza è sempre più buia. I rumori che vengono da fuori sono l’inutile canzone di una civiltà senza speranza, il canto funebre dei parassiti di un pianeta sul quale i Grandi Antichi torneranno presto a regnare. Le auto in corsa, il suono dei clacson, il trambusto nei cantieri di periferia, la stazione ferroviaria. Sintomi di vite prive di qualsiasi rilevanza, che arrancano sopra luride fognature nelle quali scorre già il seme della follia.<br /><br />Afferro la bottiglia con più forza. Il sacchetto di carta che la riveste emette un suono rassicurante tra le mie dita. Mentre bevo guardo il corpo di un uomo che si avvelena lentamente. Fin dove riusciranno a trascinarmi queste povere membra? Sono loro che fanno il lavoro sporco. È vero, c’è ancora quel fuoco che arde, il motore di questa macchina di morte, il pretesto per non abbandonarsi completamente al delirio. Ecco cosa ne è stato di Randy Coleman. La trasformazione è ormai completa. Una creatura di carne con un fucile a canne mozze come appendice, estensione del suo corpo, organo vitale fatto di ferro e fuoco. Un intento irrazionale, forse più folle delle follie che camminano nell’oscurità, lo muove come un angelo vendicatore. Vorrebbe farla finita ma non può. Qualcosa lo trattiene. C’è ancora molto lavoro da fare…<br /><br />La bottiglia è quasi a fine. L’oscurità è ormai padrona. No, non accenderò la luce sulla scrivania. Lascerò spengere gli ultimi suoni del giorno, immaginandomi la gente che torna alle proprie case, moglie, figli, progetti, fede… Nessuna differenza tra loro ed i piccoli insetti che infestano le cantine e le soffitte. Ragni, termiti, blatte…<br />Vieni oscurità. Vienimi a prendere. Fammi dormire, ti prego. Almeno stanotte, fammi dormire…<br /><br /><div style="text-align: right;"><span style="font-weight: bold; font-style: italic;">Jonathan Macini</span><br /></div>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-89149954609907749442009-11-07T05:00:00.000-08:002009-11-07T05:01:07.903-08:00SEBASTIAN CLAW: Nessuna Speranza<a href="http://willoworld.files.wordpress.com/2008/07/nessuna-speranza.jpg"><img class="alignnone size-medium wp-image-257" src="http://willoworld.wordpress.com/files/2008/07/nessuna-speranza.jpg?w=196" alt="" height="300" width="196" /></a><br /><br />Ieri notte sono tornato a casa del professore. Ero ubriaco, e ricordo appena quello che è accaduto. Cercherò di raccontarvelo, prima che l’oblio cali inevitabilmente sui mie ricordi (ancora molto confusi), ed il sogno si mischi con la realtà. Ormai non credo più a nulla, ed anche le vittime di questo shotgun sono diventate una magra consolazione. Ho ucciso di nuovo, ho ucciso qualcosa che solo con molta fantasia potreste considerare vivo, eppure gli incubi sono venuti lo stesso, più orribili che mai.<br /><br />Ho fermato la macchina nel solito piazzale. Mancava poco al tramonto. Il cielo era grigio e il mondo incolore. La villetta era immersa nel silenzio e nell’ombra. Ricordavo bene quella luce che avevo visto mesi prima, quel suono orripilante di flauti e tamburi. Niente di ciò disturbava adesso quel pacifico panorama rurale. Mi sono acceso una sigaretta. Sapevo che era una scusa per guadagnare tempo. Guardavo la finestra del piano di sopra, le persiane spalancate, le tende tirate. Un occhio su un pianeta alieno. La sigaretta era arrivata alla fine. Che fare? Riaccendere il motore, girare l’auto e tornare a casa. Si, era quello che desideravo più di ogni altra cosa. Eppure sapevo in cuor mio che se non avessi fatto quello che mi ero premesso di fare, non sarei riuscito a dormire un’altra notte.<br /><br />Sono sceso, ho gettato il mozzicone nella ghiaia del piazzale, due corvi spaventati sono volati via, oltre il tetto della villetta. Ho caricato il fucile e ho coperto lentamente la distanza che mi separava dall’ingresso, una ventina di passi, non di più. Superato il cartello di vendita affisso dall’agenzia immobiliare mi è sfuggito un sorriso. Chi poteva essere così pazzo da andare ad abitare in un posto del genere? Ma forse erano le mie fantasie, o la mia consapevolezza, a trasfigurare quella graziosa villetta di provincia, che aveva saturato le mie notti, preso possesso dei miei sogni, trasformato la mia vita. Per questo ne provavo orrore. Forse a una persona normale sarebbe piaciuta… Eppure erano passati tre mesi, e quel cartello stava ancora lì.<br /><br />La porta era chiusa a mandata. Le persiane del piano terra erano tutte sbarrate. Rimaneva solo l’ingresso sul retro. Con lo shotgun ben puntato davanti a me, mi sono portato sul retro dell’edificio. Il portico posteriore di affacciava su uno sconfinato campo d’erba’erba alta che si perdeva in un declivio verso la città. Le luci di Providence incominciavano ad accendersi. Anche la porta sul retro era chiusa a chiave, ma un proiettile a bruciapelo avrebbe fatto saltare in aria il chiavistello. Esplodere un colpo in collina avrebbe insospettito qualcuno, anche se la casa più vicina era a un quarto di miglio, così ho avvolto la canna del fucile nel cuscino di una sedia a dondolo dimenticata nell’angolo della veranda. Ho fatto fuoco, spargendo piume e schegge di legno un po’ dappertutto. Un attimo dopo ero dentro la cucina, un luogo ordinato ma ricoperto da un denso strato di polvere. Un odore da voltastomaco mi ha investito. Difficile descriverlo. Dolce e avariato, marcio e pungente. Nel silenzio assordante della villetta, una sensazione assurda ma inequivocabile si è impossessata delle mie membra, paralizzandomi dalla testa ai piedi. Nella casa viveva qualcosa.<br /><br />Dietro infiniti veli di grigio il sole stava tuffandosi oltre l’orizzonte. Non potevo farmi sorprendere dalle tenebre, non con quella cosa che si aggirava là dentro. Per fortuna mi ero portato dietro la mia medicina. Ho appoggiato il fucile sul tavole ed afferrato la fiaschetta dalla tasca interna della giacca. Il whisky di contrabbando non è un granché ma fa il suo dovere. Un lungo sorso e le membra si sono sciolte, un altro sorso ed ero pronto a salire di sopra.<br /><br />Non ce n’è stato bisogno. Riafferrato lo shotgun, ho attraversato la porta della cucina che dava su un corridoio. A destra si apriva il salotto, a sinistra la libreria, più avanti l’atrio e la rampa di scale. La poca luce esterna filtrava dalle persiane, ma era impotente di fronte all’oscurità che albergava da mesi dentro la casa. I miei occhi facevano fatica ad abituarsi. L’impianto elettrico era staccato. L’unico riverbero che mi aiutava a procedere senza andare a sbattere addosso a qualcosa era quello che proveniva dietro di me dalla cucina. Il bisogno di un altro goccetto mi ha fatto fermare. In quel momento ho avvertito lo strascichio. Veniva da sopra, lento, appiccicoso, grondante, umido. Un rumore di vischiosità viva.<br /><br />In quel momento qualcosa è scattato dentro me. Ricordo solo brandelli dei minuti successivi. I passi lenti ed esitanti verso la rampa di scale, il rumore viscido che avanzava, i contorni vaghi di una creatura deforme che scendeva i gradini, e poi il terrore. Dopo il colpo sparato nel porticato mi ero completamente dimenticato di ricaricare lo shotgun. Freneticamente ho afferrato due proiettili dalla tasca, ma riuscire ad inserirli nel caricatore con le mani che mi tremavano non è stato facile. La creatura stava avanzando verso di me molto più velocemente di quanto pensassi. Non avevo coraggio di guardare. Ho chiuso il caricatore e ho mirato alla cieca, seguendo un istinto tutto mio. Un boato inatteso è esploso nell’ampio ingresso della villetta. Non era finita, non per me. Altri due colpi. Bang! Bang! Ma ho continuato a guardarmi le scarpe mentre sparavo, incapace di soffermarmi su quell’essere che non sarebbe dovuto esistere.<br /><br />I colpi erano finiti. I bozzoli giacevano sul pavimento. Dieci, dodici. Non so. Il rumore vischioso continuava, ma era diverso. La creatura non si muoveva. Come prova poteva bastarmi. Non volevo assicurarmi di niente. Non volevo guardare. Sono corso fuori, ed è tutto quello che ricordo. Non so come sono riuscito ad arrivare all’auto, ad accendere il motore e fare manovra. Percorrere le strade ormai buie di Providence sembrava un sogno nel sogno. Per un attimo la sensazione di normalità mi ha sedotto. Avrei voluto abbandonarmici, ma come potevo continuare ad ingannarmi.<br />Nessuna speranza per chi conosce la verità. Nessuna speranza.<br /><br /><div style="text-align: right;"><span style="font-weight: bold; font-style: italic;">Jonathan Macini 2008</span><br /></div>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-79928724766803008742009-11-02T08:31:00.000-08:002009-11-02T08:32:49.757-08:00IL DIAVOLO IN ME<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi7fX_LkxzJyyUsuXOBafJKbfWQtN1Qxg2i_94mFAi-ca48WYI0WOT4UQjWzSqywdLQQ4Zh_LsmUGzebTAWoEIDcvxONSyy_86qSzvK5gQTndh9ZPaQxgaYaA6lgJZETI90h4so0uaIFIs/s320/Il+diavolo+in+me.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 231px; height: 231px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi7fX_LkxzJyyUsuXOBafJKbfWQtN1Qxg2i_94mFAi-ca48WYI0WOT4UQjWzSqywdLQQ4Zh_LsmUGzebTAWoEIDcvxONSyy_86qSzvK5gQTndh9ZPaQxgaYaA6lgJZETI90h4so0uaIFIs/s320/Il+diavolo+in+me.jpg" alt="" border="0" /></a>Cosa si nasconde dietro quella porta?<br />Lui.<br />Mani ghermenti, sudore rancido, petto villoso, alito alcolico.<br />Mio padre.<br />La forza bruta che afferra, piegando al suo volere.”Piccina, vieni qua. Tuo padre ha bisogno di coccole…”<br />No, quello è stato tanto tempo fa. Adesso dietro la porte c’è lei, la donna che sono diventata. È venuto il momento di farle visita. Si, proprio adesso, mentre punta quella nove millimetri alla testa del fottuto bastardo.<br />È una brava persona. Non lo farebbe mai…<br />…almeno che non le dia una mano io.<br />“Ciao bambina, ti ricordi? Ti ricordi quello che ci ha fatto?”<br />Uno sparo!<br /><br /><div style="text-align: right;"><span style="font-weight: bold; font-style: italic;">Jonathan Macini - 101 Parole</span><br /></div>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-72177930193667410652009-10-27T02:18:00.000-07:002009-10-27T02:19:04.448-07:00SEBASTIAN CLAW: Melvin<a href="http://willoworld.files.wordpress.com/2008/07/melvin.jpg"><img class="alignnone size-medium wp-image-244" src="http://willoworld.wordpress.com/files/2008/07/melvin.jpg?w=300" alt="" height="216" width="300" /></a><br /><br /><span class="postbody">Melvin era una zecca, come si dice in gergo. Tu lo pagavi e lui ti dava le informazioni, succhiate direttamente dalle profondità più recondite ed aberranti della razza umana. Niente di strano, se si stesse parlando di informazioni normali. Ma Melvin non era normale… Chiunque avesse assistito a metà della roba che è passata davanti ai suoi occhi, si sarebbe fatto un tuffo di diversi metri, tanto per non pensarci più. Capite quello che vi voglio dire… </span><br /><br /><span class="postbody">Sono due mesi che viaggio tra Providence ed Arkham. L’aria di Boston mi ha già cambiato. Le cose sono e le cose restano. Chi non ha più il velo davanti agli occhi è bene si cerchi un nuovo pretesto per andare avanti. Io ce l’ho… un bel po’ di piombo da commissionare. Il lavoro è solo all’inizio…<br />Melvin, vi dicevo. Un vecchio pazzo con la gobba, la bava alla bocca e la cute piena di chiazze glabre. Si aggirava nel parco di Arkham, proprio dietro la Miskatonic, insieme a un vecchio cagnolino cieco, un incrocio poco piacevole che non la smetteva mai di abbaiare. Lui diceva che gli teneva lontane le creature… Idiota! </span><br /><br /><span class="postbody">L’ho conosciuto quasi per caso circa un mese fa. Uscivo dalla biblioteca dell’università e me lo sono ritrovato tra i piedi. Aveva adocchiato i libri che tenevo sottobraccio. “Se hai bisogno di qualche informazione, chiedi pure… Faccio dei buoni prezzi…” mi disse. Poi il cagnolino incominciò ad abbaiare, e lui se ne tornò verso il parco, con uno strano ghigno sul volto. Quella notte tornai a Providence, e continuai a pensare a quel vecchio. Mi ci volle mezza boccia di bourbon per riuscire a prendere sonno, e non fu facile trovarla. Il giorno dopo, con la testa appesantita dall’alcol ed in bocca un sapore non piacevole, iniziai a consultare i due testi per i quali avevo viaggiato più di cento miglia: la pubblicazione Bridewell di Culti Innominabili e un libro di poesie di Justin Geoffrey intitolato Il Popolo del Monolito. Il professor Richardson ne accennava nei suoi appunti. No, non quelli di casa sua. Non ci sono più ritornato dopo quella notte, ma ho fatto un salto nel suo ufficio, in città. A parte un paio di note sul retro dell’agenda, non ho trovato nulla che riguardasse il mistero della sua scomparsa. Mi faccio ridere, ancora non riesco a chiamare tutta questa follia per il suo nome… eppure che nome potrei mai dargli? Occultismo? Mitologia? Potrei parlare semplicemente di deliri, ecco cosa… No, non sono curioso. Voglio solo riuscire a dormire la notte, senza l’aiuto del vecchio whisky. </span><br /><br /><span class="postbody">Ho letto i due libri ma non ho approfondito. La maggior parte di quella roba non riesco neanche a capirla. Il resto invece mi attanaglia le budella, e mi fa venire sete. Ma stavo cercando una traccia, un segno. Non l’ho trovato, così li ho riportati ad Arkham. È stato allora che ho rivisto Melvin, ma questa volta sono stato io ad avvicinarmi a lui. Appena uscito dalla Miskatonic ho sentito l’inconfondibile verso di quel brutto meticcio. Mi sono avvicinato agli alti platani che delimitavano l’inizio del parco. L’ho intravisto su una panchina, curvo ed immobile. Sembrava stesse dormendo, così mi sono avvicinato lentamente, e lui si è rivolto a me senza neanche voltarsi. La sua voce era vecchia e gracchiante. “Melvin fa degli ottimi prezzi… se si vogliono conoscere gli abomini della città…”<br />“Di che diavolo stai parlando?” </span><br /><br /><span class="postbody">È iniziato così, ed è andato avanti per più di un mese. La strage alla baia di Arkham, il mattatoio alla fattoria Renfield, l’omicidio Portman. Prelibati sonniferi per il sottoscritto. Non sto a raccontarvi le nefandezze perpetuate da queste creature (non posso certo chiamarli uomini!). Ne hanno parlato i giornali e hanno parlato anche di me. Ovviamente non sanno chi io sia, né che relazione ci sia tra le tre carneficine e l’efferata morte di un barbone di Arkham, trovato ieri notte appeso ad un cancello del parco. Le sue viscere, unite alle cervella del suo cagnolino, formavano un complicato disegno ai suoi piedi. Nessuno conosce il senso di tutte queste morti. O almeno me lo auguro. </span><br /><br /><span class="postbody">Non ho paura della polizia. Se mi dovessero beccare mi metterei lo shotgun in bocca senza esitare un attimo. Vi posso assicurare che tutta quella gente si meritava molto di più di una morte veloce come quella che ho riserbato loro. No, ho paura di altro, degl’incubi tentacolari che stritolano, privandoti anche del tempo per toglierti la vita. Una follia eterna, accompagnata da un imponderabile suono di flauti…<br />Per fortuna Providence sembra ancora abbastanza tranquilla… se ci si tiene lontani dalla casa del professore. </span><br /><br /><span class="postbody">Povero Melvin. I suoi prezzi erano davvero buoni. Ho messo da parte del buon piombo per vendicarlo. Ma ho bisogno di una nuova zecca adesso. Domani parto per Boston. Ho un contatto. Ve ne parlerò…<br />Addio Melvin. Addio cagnolino. Quasi quasi vi invidio…</span><br /><p style="text-align: right;"><span class="postbody"><span style="font-style: italic;"><span style="font-weight: bold;">Jonathan Macini - 1995</span></span></span></p>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-63044821069917246042009-10-19T04:20:00.000-07:002009-10-19T04:21:29.374-07:00SEBASTIAN CLAW: La nascita<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://willoworld.files.wordpress.com/2008/07/sebastian-claw-la-nascita.jpg?w=237&h=300"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 237px; height: 299px;" src="http://willoworld.files.wordpress.com/2008/07/sebastian-claw-la-nascita.jpg?w=237&h=300" alt="" border="0" /></a><br /><p><span class="postbody"><span style="font-style: italic;">Gli Antichi furono, gli Antichi sono, e gli Antichi saranno. Dalle stelle Oscure Essi vennero prima che l’Uomo nascesse, invisibili e tremendi. Essi discesero sulla Terra primordiale. Sotto gli oceani Essi attesero per lunghe epoche, fino a che i mari eruttarono la terraferma, ed Essi brulicarono in moltitudini e la tenebra regnò sulla Terra. Ai Poli gelidi Essi eressero possenti città, e in luoghi elevati i templi di Coloro che la natura non conosce e che gli Dei hanno maledetto. E la stirpe degli Antichi ricopri la Terra, e i Loro figli perdurarono nei secoli. Gli Shantak di Leng sono l’opera delle Loro mani, i Ghast che dimorano nelle cripte primordiali di Zin li riconoscono come loro Signori. Essi generarono i Na-hag e i Magri che cavalcano la Notte; il Grande Cthulhu e Loro fratello, gli Shoggoth Loro schiavi. I Dhole rendono Loro omaggio nella valle tenebrosa di Pnoth e i Gug cantano le Loro lodi sotto le vette dell’antica Throk. Essi hanno camminato tra le stelle ed Essi hanno camminato sulla Terra. La Città di Irem nel grande deserto Li ha conosciuti; Leng nel Deserto Gelato ha visto il Loro passaggio, la cittadella eterna sulle cime velate da nubi di Kadath la sconosciuta porta il Loro segno.<br />Pervicacemente gli Antichi seguirono le vie della tenebra e le Loro bestemmie erano grandi sulla Terra; tutto il creato s’inchinava sotto la Loro potenza e Li riconosceva per la Loro malvagità. E i Sovrani Primigeni aprirono gli occhi e videro le abominazioni di Coloro che devastavano la Terra. Nella Loro ira Essi levarono la mano contro gli Antichi, arrestandoLi nella Loro iniquità e scacciandoLi dalla Terra nel Vuoto oltre i piani dove regna il caos e non dimora la forma. E i Sovrani Primigeni posero il Loro sigillo sulla Porta e il potere degli Antichi non prevalse contro la sua potenza. L’orrendo Cthulhu si levò allora dal profondo e si scagliò con immensa furia contro i Guardiani della Terra. Ed Essi legarono i suoi artigli velenosi con potenti incantesimi e lo rinchiusero nella Città di R’lyeh dove, sotto le onde, egli dormirà il sonno della morte sino alla fine dell’Eone. Oltre la Porta dimorano ora gli Antichi; non negli spazi noti agli uomini, bensí negli angoli tra essi. Al di fuori del piano della Terra Essi indugiarono e sempre attendono il tempo del Loro ritorno; perché la Terra Li ha conosciuti e Li conoscerà nel tempo a venire. E gli Antichi tengono l’immondo e informe Azathoth in conto di Loro Maestro e dimorano con Lui nella caverna al centro di tutto l’infinito, dove egli morde famelico il caos supremo tra il folle rullo di tamburi nascosti, il pigolio stonato di orrendi flauti e il grido incessante di dèi ciechi e idioti che eternamente vagano e gesticolano. L’anima di Azathoth dimora in Yog-Sothoth ed egli chiamerà gli Antichi quando le stelle segneranno il tempo della Loro venuta; perché Yog-Sothoth è la Porta attraverso la quale Quelli del Vuoto rientreranno. Yog-Sothoth conosce i labirinti del tempo, perché tutto il tempo è per Lui una sola cosa. Egli sa da dove vennero gli Antichi nel tempo passato e da dove verranno ancora quando il cielo sarà completo. Dopo il giorno viene la notte; il giorno dell’uomo passerà, ed Essi regneranno dove regnavano un tempo. Come un’abominazione voi Li conoscerete, e la Loro malvagità contaminerà la Terra.<br /></span><br />Pioggia, sempre pioggia. Questo maledetto cielo di febbraio non sa dirmi altro. Il drappo su un orrenda verità è stato calato, e le pesanti nuvole che ricoprono questa assurda città ce lo ricordano. New York non funziona.<br />La grande mela è come sorda agli stridenti richiami dell’ombra; troppo impegnata ad ingrandirsi e a fagocitare se stessa, troppo corrotta ed incurante di tutto ciò che non è fine a se stessa. Ho affittato questo monolocale a Providence, nella speranza di ritrovare il mio vecchio compagno di collage, il prof. Richardson. Le ultime notizie riguardo a lui risalgono a una settimana fa, il giorno in cui mi è stata recapitata la lettera che conteneva il manoscritto qui sopra riportato. Il professore era impegnato in studi bizzarri di cui mi aveva accennato alcuni dettagli. Poi è arrivata la lettera, e quell’articolo in terza pagina del Washington Post. Il prof. Richardson era scomparso!!!</span></p> <p>Non so se questa sia verità o follia, ma da ieri notte non riesco più a credere a niente. Sono andato a casa del professore, una villetta isolata poco fuori Providence, e dopo aver fermato l’auto nel piazzale davanti all’entrata e aver spento i fari, mi sono accorto di quella luce. Non era un riflesso, e nessuna sorgente luminosa conosciuta poteva riprodurre quel colore, tra il verde, l’azzurro ed il nero. Usciva dalle imposte sbarrate della villetta, un ritmo pulsante che nella mia mente sembrava accompagnato da tamburi e da flauti. Ho atteso minuti che sembravano ore, ma non sono riuscito ad uscire dall’auto, bloccato al sedile da un terrore alieno. Adesso sono qua, seduto davanti allo scrittoio del monolocale, privato di una notte di sonno, ed osservo il drappo grigio del cielo chiedendomi se la follia non sia davvero il migliore dei rimedi.</p> <p>Guardo mestamente indietro, eppure non mi vergogno dei miei rimpianti. Sarebbe stato bello conoscere una brava donna, magari avere dei figli. Ho scelto la via più facile, rapito dal miraggio di una brillante carriera lavorativa. Niente di meglio che di fare l’avvocato nella città che ricopre d’oro gli avvocati. Adesso tutto ha molto meno senso. Adesso tutto sfuma tra le ombre tentacolari di una notte imperitura. Niente è più come prima, e non lo sarò neanche io.</p> Randy Coleman non è più il mio nome, così come New York non è più la mia città. Forse il mio destino è già segnato, ma cercherò con tutte le mie forze di rimandarlo al domani più lontano, insieme all’avvento di questo perverso disegno. Il mio nome è Sebastian Claw. Ho solo un fucile a canne mozze per amico, e per adesso mi basta. Providence è la mia nuova città, l’inizio di una nuova vita. Una vita che ha già un finale, ed appartiene ad abissi aberranti, tane di assurde creature. Ma prima della fine qualcuna di queste assaggerà il mio piombo. Lo devo al professore e lo devo a me stesso.<br /><br /><div style="text-align: right;"><span style="font-weight: bold; font-style: italic;">Jonathan Macini 2008</span><br /></div>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-37394606343650358202009-10-14T02:45:00.001-07:002009-10-14T02:46:07.795-07:00SERATA FM<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://willoworld.files.wordpress.com/2009/02/serata-fm.jpg?w=383&h=449"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 225px; height: 264px;" src="http://willoworld.files.wordpress.com/2009/02/serata-fm.jpg?w=383&h=449" alt="" border="0" /></a><br /><p>La radio quella sera sputava pezzi jazz, roba acid tipo Jimmy Smith, oppure il vecchio Coltrane.<br />Vecchia buona radio, ricordo ancora quando la comprai, ormai saranno passati quasi dieci anni. Era un po’ nascosta dietro agli imponenti stereo di nuova generazione, ma mi chiamò, come fanno le cose quando scelgono un padrone. E lo stesso fu quella sera, la sera di cui vi sto parlando. Lei mi chiamò…<br />…ed io, sventurato, risposi, e per la prima volta dopo tanto tempo, ma senza pensarci due volte, salii in soffitta e la tirai fuori dalla sua polverosa custodia di plastica nera.<br />Le radio antiche hanno il loro perché; si sentono oggetti importanti, raccontano storie con stile, e la musica che trasmettono é sempre quella giusta.<br />Ma quella sera accadde qualcosa di strano…<br />Seduto sul divano a fumarmi l’ennesima camel light, galleggiavo quieto sopra un assolo di hammond, quando all’improvviso una scarica elettrica interruppe il vecchio Jimmy. Cavolo, pensai. Feci per andare a sistemare l’antenna, quando la voce di una donna mi bloccò.<br />«Fumi ancora, ricciolo? Quelle schifezze ti uccideranno…»<br />La voce la conoscevo, ma che diavolo ci faceva dentro la mia vecchia radio?<br />«Samantha, sei tu?»<br />Non pensate male di me adesso. Va bene, lo ammetto, stavo parlando ad un pezzo di legno e ad un ammasso di transistor. Ma sono più che certo che vi sareste comportati esattamente come me. Dannata radio…<br />«Certo che sono io, ricciolo. E chi altro dovrebbe essere…»<br />Aveva la cattiva abitudine di chiamarmi “ricciolo”, e un tempo poteva anche andarmi bene, ma adesso, con la piazza che avevo sulla testa, quel nomignolo aveva il sapore di uno sbeffeggio.<br />«Che cavolo sta succedendo!» imprecai a quel punto. E mi alzai dal divano, determinato a chiudere quell’assurda conversazione. Allungai la mano verso la manopola, ma la voce di Samanta mi bloccò di nuovo.»<br />«Stavo pensando alla veranda di Toby, alle nottate di quell’estate così calda, che anno era? 1997? 87? 77? 67? 57?…»<br />Già, le chiacchierate insieme ai soliti balordi, la musica in sottofondo, una cassa di birra fredda sugli scalini del porticato. Chi arrivava se ne agguantava una e poi salutava il resto della truppa. Le zanzare all’inizio erano perfide, ma poi si ubriacavano insieme a noi, o forse era la musica che le frastornava per bene. Verso le tre del mattino avevano smesso di tormentarci, e la notte entrava nel suo momento clou. Poi arrivava sempre il Freddy con una tipa nuova. Faceva le sue battute sconce e poi se ne andava. Samantha ballava in veranda, Miki mischiava tabacco e gangia, io andavo a cambiare disco; a quell’ora ci voleva del sano blues, non so se mi spiego. E poi via così, fino alle prime luci dell’alba. Chissà che anno era…<br />«Samantha, che diavolo ci fai nella mia vecchia radio?»<br />«E tu, che diavolo ti è preso stasera, che te stai da solo a parlare con una vecchia radio?»<br />Poi udì un’altra scarica elettrica, e finalmente Jimmy Smith poté finire il suo assolo.</p> <p style="text-align: right;"><em>AUTORI: GM Willo, Donatello, Ciccio, Aeribella Lastelle</em></p>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-86699464660509281132009-10-08T05:11:00.001-07:002009-10-08T05:11:41.642-07:00LEI NON SA CHI SONO<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgY8I_18jHLtbXSWO5BE7uD7fIZAEeJZTp3Sr6yFz5tKwmeC8qd_LRl888vmVjwpn_vqAt_jcb1io_OhD0M8CiboVj8fICX7cxYSuB4btduTeTF_P4HQMuOaSrhQsYA8YGmNb3juZnc-R8/s320/Lei+non+sa+chi+sono.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 189px; height: 145px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgY8I_18jHLtbXSWO5BE7uD7fIZAEeJZTp3Sr6yFz5tKwmeC8qd_LRl888vmVjwpn_vqAt_jcb1io_OhD0M8CiboVj8fICX7cxYSuB4btduTeTF_P4HQMuOaSrhQsYA8YGmNb3juZnc-R8/s320/Lei+non+sa+chi+sono.jpg" alt="" border="0" /></a><span class="postbody">Mi ha invitato a bere qualcosa. L’appartamento è grazioso. Mette su un po’ di musica, poi sparisce in cucina. Torna con due bicchieri e una promessa di letto.<br />Le tolgo i drink. La stringo. Le faccio scivolare una mano sotto la gonna. Ma la mano è già un tentacolo.<br />La penetro con l’estremità gommosa di quell’appendice. Adoro prendere forme nuove. Le leggo sorpresa negl’occhi. Le piace per un po’, poi soffoca un grido. Non capisco se di piacere o di paura.<br />Urla mentre affondo negl’intestini. Lei si dimena. Danza.<br />Finalmente raggiungo il cuore. Lo accarezzo. Lo afferro. Lo strappo.<br />Dormi, piccina. </span>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-64736978997487509732009-10-04T06:34:00.000-07:002009-10-04T06:35:54.223-07:00MONTESPECCHIO<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://willoworld.files.wordpress.com/2008/10/montespecchio.jpg?w=337&h=484"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 184px; height: 264px;" src="http://willoworld.files.wordpress.com/2008/10/montespecchio.jpg?w=337&h=484" alt="" border="0" /></a>Montespecchio è un illusione. Non esiste veramente, però c’è. Un campanile di roccia a 666 metri sopra il livello del mare, un indice che punta il cielo grigio degli Appennini, incurante del vento, solitario attende. Cosa? L’evento, il misfatto, l’incipit, il motivo, o più semplicemente, la venuta del viaggiatore…<br />Vi racconterò la mia storia e non pretendo che mi crediate. Non m’interessa. Voglio raccontarvela perché potrebbe mettere un germoglio dentro i vostri cuori. Con gli anni diventerà una bella pianta, magari un albero dalla folta chioma. Dovrete annaffiarlo quel germoglio, accudirlo. Vedrete, un giorno darà i suoi frutti…<br />È successo una quindicina di anni fa. A quel tempo il mondo era balordo, ma in maniera ancora tollerabile. Si sentiva il puzzo di marcio ma non se ne vedevano ancora gli effetti, così ti potevi stordire tranquillamente senza sentirti troppo male. Una buona birra, anche di mattina, magari dopo colazione. E poi continuavi, finché ti reggevano le gambe. Se si alzava il vento lasciavi fare a lui. Gli piace avvolgerti e sorreggerti, ma glielo devi permettere.<br />La realtà diventa un giaciglio davanti al fuoco, una camminata notturna per paesaggi agresti, un viaggio musicale verso il sorgere del sole. Le passavamo così le giornate, mentre l’inverno cantava la sua canzone, e il mondo continuava a riversarsi fuori da quella dannata scatoletta. Noi, si, perché eravamo in due. Le esperienze di tutta una vita si possono dividere tra quelle che si fa da soli e quelle che si fa in due. Mai più di due. La connessione è sempre verso un singolo, anche all’interno di un gruppo. E due eravamo, da soli contro un universo eternamente avverso.<br />- Ti va un goccio? -<br />- Certo che mi va! –<br />Incominciò così. La casa del popolo era aperta, malgrado l’ora presta, malgrado il freddo e la desolazione. Un vecchio centenario ci versò due grappini. Ci guardò da sotto due grigie sopracciglia. Ci inquadrò, ci capì, e infine ci sorrise. Il sorriso di un dio, la divinità dei monti che serve grappini ai viandanti. Roba da perderci la testa…<br />- Che cos’è Montespecchio? – Domandò il mio compagno, prima di abbandonarsi ad un lungo sorso. Il fuoco gli esplose in gola, gli occhi divennero due fessure umide, il naso si colorò di porpora… Ci voleva proprio, pensai, mentre buttavo giù il mio gottino.<br />Il vecchio riafferrò la bottiglia, una Candolini da due soldi, ma faceva al caso nostro. Evidentemente pensava che avessimo bisogno di un secondo giro.<br />- Perché volete saperlo? – ci chiese, versandoci da bere. Non aveva bisogno di guardare i bicchieri. Ci fissava negli occhi, uno sguardo gelido come il peggiore inverno, ma in qualche modo rassicurante. Era il dio della montagna, ne ero certo…<br />- Vorremo visitarlo. È possibile? –<br />Ero stato io a parlare. La grappa mi aveva messo coraggio, e ce ne sarebbe voluto di lì a poco. Il barista si versò a sua volta un grappino. Non mi sembrò un buon segno.<br />- Montespecchio non esiste – borbottò, poi deglutì di fretta il suo drink.<br />- Ma la mappa dice che… –<br />- La mappa? – interruppe il vecchio. – Le mappe non dicono mai un bel niente… –<br />- E allora che cos’è quella torre laggiù? Guardi, si vede anche da qui… – ed infatti, dalla finestra che si apriva dietro al bancone, si riusciva a scorgere un’alta costruzione di pietra, massiccia, quadrata, svettante sopra un piccolo promontorio.<br />Il vecchio non si girò neanche. Si mise a tagliare fettine di limone, borbottando frasi senza senso. Io guardai il mio compagno, lui sorrise. Negli occhi c’era la fiamma dell’avventura. Pagai ed uscimmo fuori. Il barista rimase dov’era, chino sull’agrume.<br />Il vento ci sorresse. Ne tirava davvero un bel po’. È una bella sensazione, specie se indossi quei pastrani di pelle o di velluto, e le frange ti svolazzano, senti le folate entrare da sotto e potresti lasciarti andare del tutto, forse addirittura volare…<br />- Andiamo… – Eravamo Jack and Elwood in versione appeninica. Eravamo Jeff Lebowsky e il suo amico Walter. Eravamo anche un po’ Frodo e Sam, e pure Anderson e Barre dei vecchi Jethro Tull. Un paio di sigarini e via, verso il campanile del diavolo…<br />- Ma te ci credi al diavolo? –<br />- No! –<br />- Ma sei sicuro? –<br />- Si! –<br />- E Charlie Manson? –<br />- E che diavolo c’entra Charlie Manson? Scusa il gioco di parole… –<br />- Beh, il tipo era diabolico, non pensi? –<br />- Si, può essere, ma questo non vuol mica dire che esista l’omone rosso col forcone e la coda. –<br />- Beh, hai ragione. Però a me un dubbio rimane… –<br />Eravamo sotto la torre. Lassù il vento tirava che era una bellezza. Un altro grappino sarebbe stato perfetto. Ricordo che volsi lo sguardo verso la strada più sotto, in direzione della casa del popolo che avevamo appena lasciato. Pensai di nuovo al vecchio barista, ai ragionamenti sul diavolo, a mia nonna che mi diceva sempre “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”. Che cavolo significava?<br />Rimanemmo là a guardarci, a prendere in giro il panorama, a finirci quel dannato sigaro. Si vedevano i picchi innevati, i villaggi verso valle, le strade asfaltate e quelle sterrate, delimitate da bassi muriccioli. Si vedevano i campi che dormivano il sonno invernale, le catapecchie dei contadini e i tralicci del telefono. Era un bel vedere…<br />- Che facciamo adesso? – domandai io.<br />- Entriamo… -<br />C’era una porticina di legno che ad occhio e croce non era stata usata dal almeno una decade. Stava attaccata per miracolo a due cardini arrugginiti, la vernice verde scrostata, la serratura divelta. Era aperta? Era chiusa? Ci voleva il diavolo per rispondere a quelle domande, pensai. Il diavolo, sempre lui…<br />- Ci vorrebbe un altro grappino! – dissi io. Ed era vero.<br />- Beh, abbiamo fatto tutta questa strada… – rispose il mio amico, ma la sua frase ammezzata sparì nel vento.<br />La porta scivolò troppo facilmente sui cardini. Mi aspettavo un cigolio, uno strappo, un crollo, invece rimasi deluso. Si aprì senza lamentarsi. Un vero benvenuto.<br />- Hanno oliato i cardini di recente -<br />- Brutto affare -<br />Oltre la soglia, l’oscurità. Una tenda di tenebre impenetrabile. Neanche la fredda luce di quella mattina d’inverno riusciva a muoversi all’interno, sconfitta da un buio liquido che andava contro ogni legge naturale. La razionalità vacillò, per un attimo soltanto, poi il fuoco dei grappini fece il suo lavoro. Poteva anche andare bene così…<br />- Vedi quello che vedo io? -<br />- Vuoi dire che non vedi un bel niente! -<br />- Esatto! -<br />- Ma come è possibile? -<br />La domanda rimase sospesa. Allora una luce soffusa inizio a descrivere i contorni di una figura. Dentro quell’antro di tenebre solide, i nostri occhi vennero ingannati da effetti ottici e giochi di luce. Almeno così mi piace pensare. Se dovessi credere veramente a quello che vedemmo, mi rinchiuderebbero da qualche parte, ne sono certo. No, non voglio prendervi in giro. Questa è una storia, niente più, e come ogni altra storia sottostà alle sue regole. Personaggi, mistero, morale… La zuppa della zia.<br />- Che diavolo è? -<br />- Non lo pensare neanche! -<br />L’omone col forcone e la coda si dava daffare alla fucina. Batteva il metallo con precisione, dando forma a pentole e padelle. Ve n’erano centinaia ai suoi piedi, laggiù in quell’intercapedine dello spazio, dentro la torre di Montespecchio. Un milione di pentole, ma neanche un coperchio.<br />- Lo diceva sempre mia nonna… – bisbigliai io. Poi il mio amico chiuse di fretta la porta. Come avventura poteva bastare, mi dissi, così lasciai fare. Rimanemmo a guardare il paesaggio per un po’. Accendemmo un altro sigaro. Nessuno disse una parola. Il vento cantava la solita canzone.<br />- Ti va un caffè? –<br />- Sarà meglio, vai! –<br />Anche il caffè ha il suo perché, non trovate?<br /><br /><div style="text-align: right;"><span style="font-style: italic; font-weight: bold;">GM Willo 2008</span><br /></div>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-59166013163569907862009-09-29T04:35:00.000-07:002009-09-29T04:37:33.034-07:00LA SIMPATIA PER IL DIAVOLO DEI FRATELLI BOGIE<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://colonyofslippermen.files.wordpress.com/2008/09/la-simpatia-per-il-diavolo-dei-fratelli-bogie.jpg?w=323&h=269"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 259px; height: 215px;" src="http://colonyofslippermen.files.wordpress.com/2008/09/la-simpatia-per-il-diavolo-dei-fratelli-bogie.jpg?w=323&h=269" alt="" border="0" /></a><br />I fratelli Bogie suonavano il blues. Classici di derivazione rock, tipo Cream, Dylan, Stones. Venivano giù al pub alla fine di ogni mese. Non parlavano mai con nessuno. Kit al basso, Rick alla batteria e Pete alla chitarra e voce solista. I loro nomi risaltavano in lettere luccicanti su ogni strumento. Sulla grancassa era disegnato il loro logo, un coniglio saltellante sopra la scritta Bogie’s Brothers. Erano semplicemente magnifici.<br />Per il pub del paese era un toccasana. Nessuno sapeva di preciso quando sarebbero venuti. A volte li vedevi apparire il ventisette, altre il trentuno. A febbraio potevano sorprenderti il ventiquattro. Per questo motivo il locale era sempre affollato in quei giorni. La gente si metteva da parte i soldi per farsi l’ultima settimana del mese al pub.<br />Piccoli, taciturni, vestiti in modo vagamente retrò, li vedevi arrivare su un furgoncino wolkswagen color ocra. Entravano dalla porta principale senza salutare, e con gli strumenti sottobraccio si avviavano verso il palco. Il pub diventava improvvisamente silenzioso. Cento, centoventi persone, molte delle quali già un po’ brille, rivolgevano loro un ossequioso omaggio di benvenuto. La folla si apriva come le acque del mar rosso davanti a Mosè. Se qualcuno stava occupando il palco, smetteva all’istante di suonare e liberava il posto.<br />Loro, piccolini ve l’ho già detto, simili in tutto e per tutto tanto da sembrare gemelli, esibivano un ciuffo sbarazzino che li copriva quasi interamente il volto. Nel silenzio incantato del locale, si udivano solo i tonfi dei loro stivali sul palco di legno e le scariche elettriche degli spinotti. Poi iniziava sempre Rick con le bacchette; one, two, three, four…<br />Quella sera, la sera di cui vi voglio parlare, stavano suonando un repertorio classicissimo. Avevano attaccato Strange Brew, e Pete muoveva le dita sulla chitarra come il miglior Clapton. Nell’aria c’era odore di sigarette e pesce fritto, quello che si serve di solito con patatine.<br />Io sedevo insieme a Rico, un ragazzo che conoscevo da quando ero nata ma con cui non ero mai uscita. Quella sera decisi che mi piaceva. Mi piacevano i suoi modi educati, a volte così carinamente impacciati, i suoi silenzi mai veramente imbarazzanti, la spessa montatura dei suoi occhiali, che lo faceva nerd, ma con un certo fascino. Non era il tipo da fare mosse azzardate, perciò mi ero già decisa di baciarlo quella sera stessa. Con certi ragazzi, di solito i migliori, se non si prende l’iniziativa subito si rischia di diventare solo amici. Ed io non volevo essere solo amica di Rico.<br />Parlavamo di musica, e di che altro sennò. A lui piaceva la prima psichedelica, quella di Jefferson Airplane per intenderci. Ma ascoltava anche roba nuova, il filone elettronico nordico, come i Mum ad esempio. Ci intendevamo su alcuni lavori di Bjork, quelli più sperimentali. Insomma, era un bel parlare. Davanti a noi due pinte piccole di chiara.<br />Quando i Bogie attaccarono a suonare nessuno parlò più. Venimmo letteralmente rapiti dalla performance. L’impatto di quel sound era una macchina del tempo. Trasportava l’ascoltatore quarant’anni indietro.<br />Qualcuno in paese diceva che non erano come noi. Nessuno sapeva da dove venissero, nessuno riusciva a parlarci, non accettavano compensi, non bevevano birra… Arrivavano, suonavano e se ne andavano.<br />Timmi, il figlio del proprietario del pub, aveva provato a seguire il furgoncino wolkswagen, attraverso le curve e i tornanti che portavano fuori dal paese, ma era stato facilmente distanziato.<br />C’erano storie che dimoravano nelle profondità mnemoniche del villaggio, dicerie, superstizioni, assurdità alle quali tutti facevano finta di non credere. Storie di spettri, di banshee, di piccole creature della foresta, di nani e di giganti. E c’erano anche i Bogies. Si, si chiamavano proprio così.<br />Quella sera finirono con un pezzo sorpresa. Espressero la loro simpatia per il diavolo in un modo che neanche i migliori Jegger e Co. sarebbero riusciti a fare. Avvertii un formicolio, una sensazione di disagio, ma in qualche modo piacevole. C’era qualcuno o qualcosa che osservava, che ascoltava insieme a noi. Nelle scure finestre del locale andavano a morire i riflessi delle lampadine. Ma vi giuro che una di queste, mentre Pete cantava “piacere di conoscerti!” rimase completamente scura. Afferrai la mano di Rico. Gli indicai il vetro nero, la finestra oltre il palco. E anche lui li vide. Due occhi. Due fiamme brucianti.<br />Perché davanti ad un buon blues, neanche il diavolo riesce a resistere.<br /><br /><div style="text-align: right;"><span style="font-style: italic; font-weight: bold;">Aeribella Lastelle - 2008</span><br /></div>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-68770079580717390232009-09-28T01:23:00.001-07:002009-09-28T01:23:37.462-07:00ROBERTA<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg829wvdRChcX2ohB8y1tF3wYkg9Eon5hbYQuyRsO9kDfwm31WW4we76_xThApKuBJcVkrXSdfH6IYDoCwEfaH5K2OckmjoEgHjshT9ago0KZzjkVIDllFZcaDxMbPFyxgO3yd6oz5akcs/s320/Roberta.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 256px; height: 170px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg829wvdRChcX2ohB8y1tF3wYkg9Eon5hbYQuyRsO9kDfwm31WW4we76_xThApKuBJcVkrXSdfH6IYDoCwEfaH5K2OckmjoEgHjshT9ago0KZzjkVIDllFZcaDxMbPFyxgO3yd6oz5akcs/s320/Roberta.jpg" alt="" border="0" /></a><span class="postbody">Roberta, invincibile e bella. Le tue mani così candide, delicate, complici le tue cremine del cazzo…<br />Ti è sempre piaciuto l’arazzo peruviano, quello appeso in salotto. Adoravi quei colori caldi, l’arancione, il giallo, il vermiglione. Te lo avvolgo addosso, così non prendi freddo. Perché in fondo al canale fa molto freddo sai…<br />Ti rimangono fuori i piedini. Che peccato!<br />Roberta, lo sai quanto ti ho amato. Gli altri non significano niente.<br />Allora mi verso del vino.<br />Tra poco farà buio.<br />Ti ricordi il ponte di ferro, dove c’incontrammo per la prima volta?<br />Andiamo là, che ne dici? C’è una bella vista… </span>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-53521689186736910012009-09-25T01:05:00.000-07:002009-09-25T01:06:48.998-07:00LA BAMBINA VESTITA DI VIOLA<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://willoworld.files.wordpress.com/2008/12/la-bambina-vestita-di-viola.jpg?w=396&h=264"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 270px; height: 179px;" src="http://willoworld.files.wordpress.com/2008/12/la-bambina-vestita-di-viola.jpg?w=396&h=264" alt="" border="0" /></a>Oh, mio dio, perché mi chiedi questo? Forse semplicemente perché non esisti. Perché non può esistere un dio buono che permetta a certe creature di camminare sulla terra. È una follia… Tutto è una follia! Ecco che passa di nuovo sul marciapiede davanti a casa, piccola, innocua nel suo vestitino viola. Stringe la mano della madre e guarda in avanti. Non si muove come una bambina di tre anni. È meccanica, apatica, distante. Due occhioni scuri come le notti senza luna. Lei che non è di questo mondo…<br />No, non prendetemi per pazzo. Non ancora. Datemi una possibilità di spiegare. Fatemi finire, vi prego. Poi fate di me ciò che volete. Impiccatemi all’albero più alto, iniettate il caldo abbraccio della signora nelle mie vene, non m’importa più. Ma prima di voltare lo sguardo e dimenticarvi di questa brutta storia, fatevi dire che cosa può celarsi dietro l’ingenuo sguardo di una bambina di tre anni. Le ragioni della pazzia che sto per compiere…<br />La prima volta che ho visto la piccola è stato due settimane fa, al reparto bibite del supermercato. Era da sola in quel lungo corridoio, sovrastata da alti scaffali ricolmi di lattine e bottiglie, un cucciolo di tenerezza sullo sfondo di uno squallore quotidiano. La prima sensazione è stata quella di calore, lo slancio emotivo tipico che un adulto prova davanti a un bel bambino. Poi lei mi ha guardato, ed improvvisamente l’abisso si è spalancato davanti ai miei occhi.<br />Ho passato la mia vita a studiare le persone, le loro culture, la loro storia. Ho una laurea in antropologia ed una in lingue. Ho viaggiato molto; mi sono spinto fino alle sorgenti del Nilo, ho scalato i tetti del Tibet, navigato tra gli atolli del pacifico fino ad approdare alle coste dell’Antartica. So cosa si nasconde dietro il velo calato sulla nostra società. La grande bugia… Ma non divaghiamo. Ci tengo soltanto a precisare che attraverso gli anni e le esperienze ho sviluppato una certa sensibilità, un talento che mi permette di leggere le persone come se fossero libri aperti. Per questo sono convinto di quello che dico. Gli occhi della bambina, nell’istante in cui mi ha guardato, non erano umani.<br />Idoli e mostri possono cambiare nome attraverso il tempo e con l’avvicendarsi delle diverse culture, ma alla fine rimangono sempre gli stessi. La terra nasconde dei segreti ancestrali che l’uomo del ventunesimo secolo non può permettersi di conoscere. È troppo impegnato a correre dietro alla carota che gli hanno appeso davanti alla bocca. E forse è un bene per lui. Vive ignaro di tutto, venerando Dei inutili, inseguendo assurde chimere. Ma io sono anni che mi dedico al mondo inferiore, quello che non è schiavo del tempo, e attende, inconsapevole di attendere, perché a lui poco importa l’oggi e il domani.<br />Eccola che ripassa insieme alla madre, una famiglia normalissima. Vivono in fondo alla mia strada. La piccola è figlia unica, ci mancherebbe… Creature così hanno bisogno dei loro spazi. Non sa che la sto osservando. Non immagina che io sappia, e menomale, perché altrimenti per me sarebbe la fine.<br />Succederà domani, mentre sua madre l’accompagnerà a scuola. La incrocerò sul marciapiede, le darò il buongiorno, e in una frazione di secondo estrarrò il pugnale sacrificale. Devo puntare agli occhi. Sono loro la porta…<br />Lo strisciante si impossessa delle vite degli umani. Le usa, si balocca, ed infine le abbandona, come costumi da carnevale all’indomani del martedì grasso. Lui manipola la realtà, apre passaggi, inventa scenari. La bambina è il suo abito, e nel suo sguardo ha santificato il cancello attraverso il quale sopraggiungerà Dio. Si, avete capito bene; Dio. Né cristi né profeti, niente di tutto ciò. Vi siete divertiti per tutti questi secoli con le novelle di mamma chiesa? Beh, le favole sono finite, gente! Egli arriverà. Yog-Sothoth è il suo nome, e vaga nel cosmo in globi perfetti di luce. Definirlo come il Male è davvero limitativo. Una banale spiegazione per menti che non riescono ad arrivare oltre i contrasti bianco/nero. Si, perché lui è la sfumatura di tutto…<br />Pazzo, certo che sono pazzo. Urlate a tutti i vostri amici e parenti che avete appena incontrato un pazzo. Questo vi fortificherà. Vi farà sentire sicuri, così potrete andare a dormire. Dormire… da quanto tempo ormai non mi è concessa un’intera notte di sonno. Appena scendo nelle terre di oniria, palcoscenici di una realtà negata all’uomo moderno, la bambina col vestito viola appare, piccola, insignificante, ma è solo un’immagine riflessa. Lo specchio che rivela il vero le sta di fronte. Non posso rifiutarmi di guardare. E allora Lui appare, essere contorto fatto di pelle e corteccia, un tentacolo enorme al posto della testa e cinque enormi arti (tre sotto e due sopra) muniti ciascuno di tre neri artigli. Un grido esplode nell’oscurità della mia camera da letto. Mi sveglio tra le lenzuola bagnate di sudore. In quei momenti, invocare la morte è tutto ciò che mi rimane.<br />Ma quando la luce penetra finalmente attraverso le veneziane della finestra, qualcosa dentro me mi convince ad andare avanti con quello che mi sono prefissato di fare. Cerco il coraggio, la ragione di tutto questo orrore. Perché io? E subito mi rispondo; perché no? Ho tutte le carte in regola per affrontare una sfida di questo calibro. Se qualcuno deve prendersi la responsabilità di un gesto così folle (e le sue orribili conseguenze) questo non può essere che il sottoscritto.<br />Quando leggerete queste righe, se sarò abbastanza fortunato, mi troverò già a marcire dentro una cella. Me lo auguro per voi, perché l’altra possibilità è che Lui preveda le mie intenzioni, e decida di mostrarsi per quel che realmente è. Spero di riuscire a rimandare i suoi propositi. Dico rimandare, perché Loro non si fermeranno di certo davanti al primo imprevisto…<br />Non pretendo che mi crediate. Anzi, spero che non lo facciate. Che possiate continuare a condurre una vita serena, fatta di amori, figli, piccole soddisfazioni e piccole delusioni quotidiane. Lasciate perdere queste pagine. Sono solo i deliri di un folle, che in una bella giornata di settembre ha infilzato gli occhi di una bambina con un coltellaccio adorno di strani simboli.<br />Nessuna giustificazione. Solo uno spassionato consiglio; smettetela di pregare.<br />Non vi servirà a niente.<br /><br /><div style="text-align: right;"><span style="font-weight: bold; font-style: italic;">Jonathan Macini 2008</span><br /></div>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-33179759134216362442009-09-22T23:54:00.000-07:002009-09-22T23:55:04.914-07:00TRE MUSICI CONTRO L'INNOMINABILE<a href="http://colonyofslippermen.wordpress.com/files/2008/11/tre-musici-contro-linnominabile.jpg"><img class="alignnone size-full wp-image-257" title="tre-musici-contro-linnominabile" src="http://colonyofslippermen.wordpress.com/files/2008/11/tre-musici-contro-linnominabile.jpg" alt="tre-musici-contro-linnominabile" height="185" width="384" /></a><br /><br /><span class="postbody">Peter e Daevid fecero un salto a casa di Ian, quella vicino al bosco, quella col porticato di legno e il grande camino in pietra. Il tavolo davanti al fuoco era imbandito di liquori, caramelle e funghetti. Insomma, c’era tutto il necessario per passare una bella serata. Una serata in compagnia…<br />Calarono le ombre, il fuoco continuava a scoppiettare e i tre sedevano beati a raccontarsi storie. Daevid descrisse mondi impossibili, pieni di fiori e di colori. Ian parlò del bosco e dei suoi mille segreti. Peter invece raccontò un paio di filastrocche senza senso. Gli altri fecero finta di niente perché sapevano che Peter era fatto così. Più unico che raro.<br />Ma insieme alle ombre calò qualcos’altro, ancora più oscuro e terribile. Complice di Tenebra e di Polvere, egli non ha nome, perché è l’assenza del suono, la rottura della sinfonia. Qualcosa di estremamente diverso dal silenzio, che a volte può diventare musica. L’Innominabile è il vuoto sonoro, il divoratore della vibrazione cosmica, il cospiratore di Entropia.<br />Il suo approssimarsi è sfuggente, uno sfrigolio nella matrice della realtà, giochi di luce e ombre cinesi. Fu il fuoco che scoppiettava ad avvertire i tre amici. D’un tratto danzò in maniera diversa, proiettò ombre maligne. Digrignò le fauci, azzannò l’aria, urlò. Perché il fuoco parla, a chi è capace di ascoltarlo…<br />I tre si mossero lenti ma precisi. I funghetti e le chicche erano in circolo, e questo amplificava la sensibilità, ma rallentava i riflessi. Lo scongiuro poteva funzionare solo se avessero unito i loro poteri.<br />Spostarono il tavolo e le sedie, facendo spazio davanti al camino. Poi ognuno afferrò il suo strumento. Daevid suonava il liuto, Ian il flauto e Peter i tamburi. Qualcuno batté il tempo e, allo scoccare del quarto quarto, fu subito musica…<br />Esistono luoghi che hanno poco a che fare con la realtà, la scienza, la ragione. Sono i luoghi della fantasia, delineati da menti sensibili e cuori romantici, costruiti su dei castelli d’aria fritta, zucchero filato e caramello. In uno di questi potreste forse trovare il prato in cui si combatté questa straordinaria battaglia. Tre musici contro l’Innominabile divoratore del suono.<br />Chi vinse? Beh, è ovvio. Vinsero i tre amici. Ma l’Innominabile non è stato sconfitto. Egli vaga ancora nello spazio siderale, infilandosi dentro buchi neri, esplodendo insieme a intere galassie. Egli continua la sua eterna lotta contro la Grande Sinfonia, il disegno che ha dato vita a questo nostro universo.<br />Finché la musica suonerà, saremo al sicuro. Ma dovete promettermi una cosa…<br />… non spengete lo stereo. Non spengetelo mai!<br /><br /></span><div style="text-align: right;"><span style="font-style: italic; font-weight: bold;" class="postbody">Aeribella Lastelle</span><br /></div>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-34450927748704303302009-09-22T03:35:00.000-07:002009-09-22T03:37:46.116-07:00UNA STORIA SENZA FINE<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://willoworld.files.wordpress.com/2008/05/una-storia-senza-fine.jpg?w=362&h=361"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 278px; height: 277px;" src="http://willoworld.files.wordpress.com/2008/05/una-storia-senza-fine.jpg?w=362&h=361" alt="" border="0" /></a>C’era una volta un ragazzo che ogni sera se ne saliva in camera sua a scrivere una storia. Prendeva il suo quaderno a righe, la sua penna a sfera blu, ed incominciava più o meno così:<br />“C’era una volta un ragazzo che ogni sera se ne saliva in camera sua a scrivere una storia. Prendeva il suo quaderno a righe, la sua penna a sfera blu, ed incominciava più o meno così:<br />“C’era una volta un ragazzo che ogni sera se ne saliva in camera sua a scrivere una storia. Prendeva il suo quaderno a righe, la sua penna a sfera blu, ed incominciava più o meno così:<br />“C’era una volta un ragazzo che ogni sera se ne saliva in camera sua a scrivere una storia. Prendeva il suo quaderno a righe, la sua penna a sfera blu, ed incominciava più o meno così…<br />Adesso penserete che questa storia non abbia una fine, e che sia solamente uno scherzo un po’ sempliciotto di uno scrittone burlone. Invece no! Perché, che ci crediate oppure no, nel ripetere quelle frasi all’infinito, il ragazzo visse per sempre felice e contento. E questa, naturalmente, è la fine della storia.<br /><br /><div style="text-align: right;"><span style="font-style: italic; font-weight: bold;">GM Willo 2008</span><br /></div>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-81036635211234356912009-09-21T01:36:00.001-07:002009-09-21T01:39:17.130-07:00VIRTUAL SOTHOTH<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://willoworld.files.wordpress.com/2008/03/virtual-sothoth.jpg?w=282&h=511"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 243px; height: 445px;" src="http://willoworld.files.wordpress.com/2008/03/virtual-sothoth.jpg?w=282&h=511" alt="" border="0" /></a><p style="text-align: left;"><span>Mi auguro che quello che sto per raccontarvi sia a tutti gli effetti il delirio di un uomo in preda a strane febbri. Che gli eventi ai quali il mio avatar ha assistito, siano solamente il risultato di un’alterazione improvvisa delle droghe in circolo. Che il mondo dentro al quale mi sono proiettato non sia altro che la burla di un server criptato.<br />Le mie recenti letture potrebbero aver condizionato le mie percezioni. Creature dell’incubo, abbietti abitatori delle remote regioni del cosmo, divinità contorte degli abissi. Le ho credute favole per bambini. Fantasie distorte di menti tenebrose, venute alla luce all’inizio di un secolo buio. Il sogno che codifica la realtà. L’insensatezza di tutto.<br />Ma ai confini di questo universo fittizio, oltre i corridoi ambrati in cui il sistema binario si comprime, succedono cose strane. Laggiù esistono degli spazi immensi, esuli da qualsiasi legge elettronica. Spesso non sono compatibili con le nostre rappresentazioni, ma a volte puoi incontrare un “match”, un incastro perfetto che risucchia una parte di te, lasciandoti spiare oltre il velo.<br />Nei grattacieli informatici è possibile recuperare solo qualche brandello di conoscenza, testimonianze anonime di alcune diramazioni esistenziali, la maggior parte delle quali ha solo creduto di innescare un “match”. Il davolin ha fatto il resto. Quando quella roba si amalgama al tuo avatar, puoi vedere dio e sua sorella, e intrattenerti con loro a giocare a biliardo. Ho visto proiezioni rimbalzare per anni dentro un server di recupero, mentre i loro “host” vegetavano nelle cliniche fuori città.<br />Ma qualcuno si è davvero spinto oltre il velo, e ho paura che anch’io abbia fatto lo stesso.<br />Il distacco è stato qualcosa di doloroso. Nessuna codificazione percettiva pseudofisica, non se mi spiego… Il dolore non era la riproduzione di un evento nefasto, come succede di solito quando il tuo avatar inciampa. Ho avvertito una specie pulsione neurale all’altezza della spina dorsale, e un vuoto che si sprigionava da un punto ben definito dietro la schiena. Ma poi il dolore si è mosso fuori dal corpo, concentrandosi in una zona circoscritta a un metro e mezzo sopra di me. Ciononostante continuavo a percepirlo, ed era lancinante.<br />Poi le tenebre sono esplose nella mia testa. Era la morte come me la sono immaginata per anni. Una condizione di assenza assoluta; il realizzare unico della propria percezione. La totale disgregazione dello spazio-tempo. Una perfetta condizione di standby.<br />Non posso quantificare il tempo che ho passato in tale stato. So solo che ad un certo punto sono comparsi i globi di luce, una serie di sfere iridescenti che mutavano continuamente di colore e dimensione, nascendo e scomparendo.<br />Il ronzio delle sfere era simile ad un infernale didgeridoo, vibrante, alieno.<br />Non riuscivo a smettere di secernere bava dalla bocca, come una bestia agonizzante.<br />Ci sono voluti giorni perché riacquistassi il dono della parola. Ho pianto per settimane, risvegliandomi da incubi indescrivibili, madido di sudore, in preda ad un fredda paranoia.<br />Col tempo ho ripreso coraggio, ho tentato di razionalizzare l’evento, di convincermi che in fin dei conti non era possibile distinguere una percezione dalla realtà quando eri connesso, che per quanto assurdo avevo creato tutto io, con il mio cervello ormai devastato dalle sinte-droghe; mi ero quasi convinto, dannazione, quando lui suonò alla mia porta…<br /><br />Il suo trench aveva il colore del lattice appena sgorgato, portava con disinvoltura un taqiyah bianco decorato con piccoli cerchi dorati: il suo sguardo era nascosto da occhiali circolari dalle lenti violacee senza stecche, ma la sua espressione tradiva un odio ed una violenza che rasentava la follia. Non avrei mai voluto farlo entrare nella mia tana, ma non riuscii ad impedirglielo. Non so spiegarvi il magnetismo che emanava, le vertigini che mi assalirono quando si tolse gli occhiali, fissandomi negli occhi senza battere ciglio.<br />Fu allora che sentii per la prima volta la sua voce. Ancora oggi non riesco a dimenticarla.<br />“Posso entrare?” Domandò, con un tono ne che non ammetteva alcun rifiuto.<br />“Chi…io… non la conosco…” balbettai, in preda ad un terrore misto a rispetto.<br />“Conoscere… usate sempre le parole che non comprendete…”<br />“Cosa vuole… da me?”<br />“I suoi ricordi.” mormorò, accennando un sorriso.<br />“I miei…ricordi?”<br />Non ho memoria di cosa accadde dopo. L’ultima immagine che riesco a rievocare sono le sue mani orrende che mi afferravano per la gola, le sue dita senza unghie, la sua voce che chiamava qualcuno… o qualcosa…<br />Mi risvegliai il giorno seguente, il collo mi doleva, ma nessun livido macchiava la mia pelle. L’appartamento era stato messo a soqquadro, il mio deck era stato portato via, per un attimo mi sfiorò l’assurda idea di denunciare l’accaduto alla psicosquadra…<br />Mi sarei guadagnato un mese di riallineamento neurale a mie spese, non mi avrebbero mai creduto, e gli ultimi brandelli di umanità che mi erano rimasti si sarebbero dissolti.<br />Mi alzai a fatica, frugai in quel caos in cerca della mia derringer intelligente, ma trovai solo una manciata di chip di credito e un barattolo mezzo vuoto di metaxanax.<br />Ingoiai le pillole ed indossai il cappotto. Era marzo, ma la neve copriva ancora la metropoli, nascondendo la sporcizia sotto un manto immobile.<br />Non sapevo dove fuggire, ma quel posto non mi sembrava più sicuro, continuai a chiedermi perché non mi avesse ucciso, mentre correvo nei vicoli imbiancati, mentre scappavo da un terrore che non aveva nome né forma.<br />Chi era quell’uomo, cosa avevo visto nel cyberspazio, perché voleva i miei ricordi?<br />Entrai in un drugshop di ultima generazione, sulla 24° via.<br />Il tanfo di spezie bruciate e di fumo invase le mie narici, mentre il proprietario mi squadrò con disprezzo, scambiando la mia paura per una semplice crisi di astinenza.<br />“Sei in paranoia, chombatta? Hai un aspetto di merda…”<br />Uscì dal bancone con lentezza, il suo accento era il frutto di almeno tre culture, così come la sua pelle ed il suo aspetto. Mi indicò un piccolo tavolo rotondo da fumo, mi stesi sul divano puzzolente ed attesi il menù. Più di centocinquanta droghe provenienti da tutto il mondo apparvero nello schermo tattile, con le controindicazioni scritte in font illeggibili.<br />“Caraqua? Sintecrack? Emostamina? Abbiamo in prova un taglio di Gandhi divino…”<br />“Siete connessi? E’ possibile connettersi con questo terminale?” dissi, indicando lo schermo incassato nel tavolino da fumo.<br />“Che cazzo ne so, le odio queste macchine di merda…” rispose<br />“Mi porti una tisana di Spitznick… bella calda…”<br />“Da mangiare niente?” non sembrava affatto una domanda…<br />“Una fetta di torta ESP…senza panna modificata, per favore…”<br />Non aggiunse altro, lasciandomi solo, davanti al terminale.<br />Presi un lungo respiro prima di crackare il menù con un movimento delle dita sul touch screen: lo schermo si tinse di nero, rivelando il sistema operativo che gestiva il menù. Ogni deck era connesso alla macronet, una rete di controllo delle multinazionali che monitorava istante per istante ogni comando impartito alle macchine commerciali, “finalmente sicuri” recitava lo spot della sua presentazione.<br />Avevo poco tempo, mi avrebbero scoperto nel giro di alcuni minuti, ma ero sicuro che mi sarebbero bastati…e forse sarei riuscito anche a “pagare” il conto crakkando il menù.<br />Se un “disconnesso” mi avesse visto mentre mi scagliavo nella rete esterna sfregando le mie dita sullo schermo tattile mi avrebbe scambiato per un autistico o per un folle, ma il locale era deserto, ed il proprietario era ancora nel retro a prepararmi la tisana.<br />Trovai l’accesso alla Wayback Machine in pochi secondi, rievocai l’immagine di memoria della mia ultima corsa, incrociando il mio IP con la data della mia esperienza virtuale e le coordinate della mappa interna. Interi terabyte di memoria fluttuavano nello schermo, in attesa di essere compilate. Un brivido mi assalì quando il proprietario sbucò all’improvviso dal retrobottega, con un vassoio lucente in mano. Due rapidi gesti sullo schermo, il menù riapparve all’istante, coprendo il sito pirata con il suo manto di bit.<br />“Ecco qua…fanno 28 eurodollari… pagamento anticipato, carta o chip?”<br />“Ho già pagato con il BAMA, mentre era di lá… i prezzi erano scritti nel menù…”<br />Il proprietario mi squadrò per alcuni secondi, andò in silenzio dietro il bancone e ci mise quasi un minuto per ricordarsi come controllare il pagamento elettronico dal suo server.<br />“Qui c’è scritto 280 eurodollari…” disse “grazie della mancia…”<br />Sudai freddo… uno zero di troppo, maledetta fretta.<br />“É che vorrei… fare un po’ di scorta di metaxanax…”<br />“Quella merda è illegale… io non vendo robaccia importata dall’Eurasia…” mentì.<br />L’embargo durava da più di dieci anni, ormai, ma tutti erano consapevoli che il mercato clandestino non solo non ne aveva risentito, ma anzi, aveva solo fatto lievitare i prezzi.<br />Non dissi niente, lasciai che i 280 eurodollari parlassero per me.<br />“Però…” concluse “se proprio ti va di scassarti il cervello…”<br />Tornò nel retrobottega, avevo poco tempo, presto l’accesso illegale sarebbe stato processato dai robot corporativi ed identificato come un attacco terroristico…<br />Ridussi di nuovo ad icona il menù con un rapido gesto delle dita, il servizio di recupero della rete mi aspettava, come un cane fedele e infallibile… RUN… YES… YES…<br />Mi ritrovai nel mio appartamento lordo di sangue.<br />Lessi per caso sul quotifax cosa era successo nel drugshop. Tuttora non ricordo nulla delle ore successive a quei tre comandi…<br />L’unità antiterrorismo entrò nel locale alle ore 23:07, pochi minuti dopo la mia fuga, evidentemente: trovarono il proprietario del locale in sedici zone differenti…<br /><br />Da allora qualcosa vive in me, qualcosa di orrendo… di inconcepibile…<br />Non si tratta di allucinazioni o di un virus di ultima generazione!<br />Qualcosa di vivo si è impossessato della mia mente, del mio corpo… della mia anima!<br />Esistono cose che è meglio dimenticare, per sempre, una volta per tutte!<br />Stai lontano dalla rete! Non ti connettere! Una parte di lui vive ancora in quel Server!<br />Ormai riesco a comprendere quel ronzio, è una voce, un linguaggio, sta cercando un varco per la nostra realtà! Non sopporto più quel nome che ormai riecheggia nella mia testa, non posso vivere con il terrore che l’uomo in bianco torni a trovarmi…<br />Mi stanno usando… io sono la chiave, ormai.<br />Non posso permettergli di uscire dalla mia prigione…<br />NO! Hanno bussato alla porta… è lui…<br />La finestra… si… la finestra…Un volo e poi il nulla…<br />Ti porterò con me, maledetto… Non tornerai a vivere!<br />NON APRIRAI IL CANCELLO YOG SOTHOTH!<br /><br />[End of file... SEND on MARCH 29 2022]</span><span style="font-weight: bold; font-style: italic;"><br /></span></p><p style="text-align: right;"><span style="font-weight: bold; font-style: italic;">Grezzo Illusivo 2008</span><br /></p>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-59448557327306056052009-09-20T13:02:00.000-07:002009-09-20T13:03:51.434-07:00L'INIZIAZIONE<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEimQbr8v64bXej6Nhg4MKUHpgJMbOZUIxXvIM5xR6OReqgwOYmUcEEm2Al5TqKIKukC7VXowqcscCntu71zkRGxC5xcfD0l-DPXawM2RTgm1X66UKvQgMdYUC5ZXNnhhQbxNb1_N36fagU/s320/L'iniziazione.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 248px; height: 187px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEimQbr8v64bXej6Nhg4MKUHpgJMbOZUIxXvIM5xR6OReqgwOYmUcEEm2Al5TqKIKukC7VXowqcscCntu71zkRGxC5xcfD0l-DPXawM2RTgm1X66UKvQgMdYUC5ZXNnhhQbxNb1_N36fagU/s320/L'iniziazione.jpg" alt="" border="0" /></a>«Papà, tu qui?!»<br />Lo sguardo del vecchio si posò sull’aspirante adepta. Le neri vesti dei quindici sacerdoti giacevano riverse sul freddo pavimento del tempio, insieme a quella ridotta a brandelli della ragazza.<br />«Innanzi all’Entità Cosmica, tu non sei mia figlia. Sei farina di stelle, cellula del disegno.»<br />Gli uomini le si fecero appresso. Lei continuò a rimanere aggrappata alla sua umanità. Poi avvertì il tocco di una, dieci, venti mani. Le carni si fusero in una danza di nervi e mucose, gemiti e rantoli, fragranze e sughi. Non una banale ricerca del piacere, ma il sigillo immacolato di una grande iniziazione.<br /><br /><div style="text-align: right; font-weight: bold; font-style: italic;">GM Willo 2008 per 101 Parole<br /></div>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-78219815381435427062009-09-18T01:02:00.000-07:002009-09-18T01:03:32.718-07:00IL DIO DEI DINOSAURI<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://willoworld.files.wordpress.com/2009/01/il-dio-dei-dinosauri-cop.jpg?w=378&h=541"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 254px; height: 364px;" src="http://willoworld.files.wordpress.com/2009/01/il-dio-dei-dinosauri-cop.jpg?w=378&h=541" alt="" border="0" /></a>Attorno al bar Cosmo i mondi ruotano su orbite ben delineate, per dirigersi inevitabilmente verso destini già scritti. Nel locale l’atmosfera è satura di luci soffuse, vortici di fumo dagli aromi pungenti e melanconici assoli blues. Ogni sera è così…<br />Dietro al bancone Toth il barista asciuga bicchieri e tazzine con gesti automatici, riponendo poi le stoviglie nei loro rispettivi scompartimenti. Alcune divinità si riuniscono attorno al biliardo, mirando le stecche su pianeti deserti, presi in prestito dai loro universi. Gli sferici oggetti, liberi dalle loro orbite-prigioni, girano sul tappeto verde partecipando al gioco. Presto o tardi verranno ingoiati dai buchi neri del biliardo.<br />Al bar Cosmo gli Dei cercano di distrarsi dai loro affari, ma a fine serata è normale che si ritrovino a parlare di lavoro.<br />Quella sera, a un’ora un po’ tarda, entrò un Dio piccolo piccolo. Al bar lo conoscevano tutti. Era un tipo un po’ bislacco, con delle idee buffe, e molti lo prendevano anche in giro. Afferrò un bicchiere e un cucchiaio e richiamò l’attenzione dei presenti. Annunciò la sua ultima creazione, una nuova specie vivente per il suo piccolo mondo. Una specie molto, molto più intelligente di tutte le altre, fatta a sua immagine e somiglianza, e capace di comprendere i più grandi segreti del cosmo. Una specie che col tempo avrebbe dominato su tutti gli altri esseri viventi.<br />I giocatori di biliardo si guardarono in silenzio e a qualcuno scappò una risatina. Poi tornarono a giocare, come se non fosse successo niente.<br />«Secondo me questa tua nuova invenzione fa la fine di quell’altra. Com’è che li chiamasti quei mostri? Dinosauri?» affermò un Dio, spedendo il pianeta numero otto in un buco nero laterale.<br />«Già, ricordo che dicesti che quei lucertoloni avrebbero dominato gli altri esseri con la loro forza. Ma ti dimenticasti di qualcosa, se non sbaglio…» ribatté un altro, ammiccando sardonicamente ai compagni di gioco.<br />«È vero, feci un piccolo errore di calcolo. Ma questa volta non si ripeterà. Ho progettato questi esseri fin nei minimi dettagli. Sarà la mia più grande creazione, vedrete!» E detto ciò l’ambizioso Dio lasciò il bar Cosmo.<br />Gli altri invece continuarono a giocare a biliardo.<br />«Scommetto dieci galassie che questa nuova specie non dura più di tre rotazioni» commentò un giocatore, lavorando la punta della sua stecca col gessetto.<br />Al bar Cosmo Toth il barista continuava ad asciugare i bicchieri.<br /><br /><div style="text-align: right;"><span style="font-weight: bold; font-style: italic;">GM Willo - 1997</span><br /></div>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-88873832826102291472009-09-17T02:03:00.000-07:002009-09-17T02:04:50.921-07:00LA VILLETTA DI PAPÁ<a href="http://willoworld.files.wordpress.com/2008/09/la-villatte-di-papa1.jpg"><img class="alignnone size-medium wp-image-339" title="la-villatte-di-papa1" src="http://willoworld.wordpress.com/files/2008/09/la-villatte-di-papa1.jpg?w=300" alt="" height="227" width="300" /></a><br /><br /><span class="postbody">Lacrime di sangue sulla faccia della luna. Un ululato lontano squarcia il disegno delle tenebre, mentre arranco fuori dal seminterrato della villetta di papà, quella sulle colline.<br />Mi accendo una sigaretta. Ho le mani lorde ma non ci bado. Le cime degl’alberi si muovono nel riverbero delle luci artificiali, quelle dell’autostrada vicina. Autisti notturni sfrecciano a meno di duecento metri da dove mi trovo, del tutto ignari del macello appena compiuto.<br />Il sapore della sigaretta è buono. Ho appoggiato volutamente le dita alle labbra. Ho gustato il lordume mischiandolo al tabacco. Ferro e humus.<br />Perché uccido? È una domanda alla quale ho provato di rispondere spesso. Non è facile. È un po’ come chiedersi perché si respira. È una domanda sciocca. Spesso me la pongono anche le mie vittime, un attimo prima che la festa abbia inizio.<br />David e Luana. Si chiamavano così quelli di stasera. Il pretesto era scontato, un threesome a casa mia, tutto organizzato in chat; la coppia e lo sconosciuto. Adoro fare la parte dello sconosciuto…<br />Nell’email specifico ai due che è meglio se vengo loro incontro. La strada per raggiungere la villetta è dissestata e ci si può arrivare solo con un fuoristrada. Li vado a prendere al casello dell’autostrada, lasciamo la loro auto in una stazione di servizio chiusa, poi andiamo tutti quanti su con il mio cheerokee. Sono davvero carini, trentacinque lui, appena ventisette lei. Quando imbocchiamo lo sterrato, quello che porta alla villetta, avverto la prima erezione. Incomincia sempre così.<br />Parlo con loro ma la mia mente è altrove. Temo di aver dimenticato a casa il seghetto. Sarebbe un bel problema. Potrei risolvere con l’accetta, ma quella fa sempre troppi schizzi. E poi chi glielo dice a papi…<br />Quando entriamo in casa mi fanno i compimenti per l’arredamento, poi li faccio accomodare in salotto. Servo del brandy e della cola. Lei non beve.<br />Davanti al camino parliamo del più e del meno. Lei gestisce un piccolo negozio di scarpe, lui è istruttore di golf. Io dico loro che faccio lo scrittore, una bugia che mi viene sempre bene.<br />Ma non siamo lì per parlare. Dieci minuti dopo Luana me lo sta succhiando sul divano, mentre il suo compagno incomincia ad eccitarsi. Il fuoco scoppietta come un dannato, in sottofondo ho messo del lounge, ma si sente appena. Percepisco invece i mugolii di lui e i risucchi di lei.<br />David si avvicina. È accaldato dal fuoco e dalla situazione È pronto a prendere la sua compagna da dietro, mentre lei continua a darmi piacere. Ma non glielo permetto.<br />La beretta esplode in faccia all’istruttore di golf. Pezzi di cervello vanno a sfrigolare sui tizzoni del camino. Sento la mascella di Luana tendersi sul mio membro. Si è accorta della sorpresina. La prendo per i capelli e la sollevo. Lei urla. In faccia le leggo un terrore alieno, e me ne felicito, perché ne sono l’artefice.<br />Ordino al telecomando di alzare il volume dello stereo. Lei può urlare quanto vuole. Il ritmo è incalzante, c’è anche un bel sax.<br />Luana è piccola. Ci mette tutta la forza che ha in corpo, prova a divincolarsi, ma io le afferro una mano, la giro, la immobilizzo. Un attimo dopo è mia prigioniera. La festa può incominciare.<br />Nel seminterrato tutto è pronto. Purtroppo i miei dubbi vengono confermati. Non c’è il seghetto. Sorrido alla mia complice e condivido con lei il mio disappunto. Lei è imbavagliata. Mi risponde sbattendo le palpebre e soffocando un gemito. Come la capisco…<br />Luana ci mette venticinque minuti a morire. Fa bene il suo dovere. Rantola, defeca, schiuma. Insomma, tutto il repertorio. Io provo nuove tecniche. Alcune mi lasciano soddisfatto, altre meno. A fine opera mi convinco che ho bisogno di nuovi strumenti.<br />La notte è tiepida. La sigaretta è a fine. Mi perdo nel disco lunare. Anch’io vorrei ululare insieme a quel lupo. Come lo capisco…<br />A valle distinguo le luci della jeep, puntualissima. Sale lentamente verso la villetta, sballottata dalle buche e dalle pietre più grosse. Le vado incontro.<br />Si ferma accanto al cheerokee.<br />«Ciao papi!»<br />Papà mi guarda con un interrogativo negli occhi.<br />«È tutto pronto» lo rassicuro io.<br />«Bene…» risponde. È fiero di me.<br />«Di sopra bisognerà passare lo straccio…»<br />«Non ti preoccupare figliolo. Lo facciamo insieme, più tardi.»<br />Lo vedo sparire nel seminterrato.<br />Buon’appetito papà.<br /><br /></span><div style="text-align: right;"><span style="font-weight: bold; font-style: italic;" class="postbody">Jonathan Macini - 2008</span><br /></div>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-342485609921642698.post-78274636970615513302009-09-16T05:13:00.001-07:002009-09-16T05:18:11.255-07:00LA DONNA CHE PARLA AI CADAVERI<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiI7fOwDssedS8anp14TG3ueL2bNcdxUNYHL22SbeF_A7H_72ECGM117OKSQ0FFcYU_PhwXV6lFgPgFBZk4aXt_sCKNx9x8qa4b69eqS4kLaboNrGe-MqssLBDA7fbq4c7oV2HKn68z6_c/s320/LA+DONNA+CHE+PARLA+AI+CADAVERI.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 214px; height: 320px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiI7fOwDssedS8anp14TG3ueL2bNcdxUNYHL22SbeF_A7H_72ECGM117OKSQ0FFcYU_PhwXV6lFgPgFBZk4aXt_sCKNx9x8qa4b69eqS4kLaboNrGe-MqssLBDA7fbq4c7oV2HKn68z6_c/s320/LA+DONNA+CHE+PARLA+AI+CADAVERI.jpg" alt="" border="0" /></a>Cadono gocce di luna sullo smalto che ricopre le sue unghie. Se ne spezza un’altra, mentre le mani affondano nella terra smossa. Per amore si fa questo ed altro… e non è la prima volta.<br />Katelina riesuma i cadaveri per farli parlare. Il sortilegio è antico, un segreto perso nella notte dei tempi. Ha bisogno di sapere se lui le ha detto la verità. Se fosse così, avrebbe richiamato tutta l’oscurità che dimorava in lei per riuscire a salvarlo. Le tenebre che spazzano via le menzogne, urlando il loro bisogno di verità.<br />Per amore si guarda in faccia alla morte… ridendo.<br /><br /><div style="text-align: right;"><span style="font-weight: bold; font-style: italic;">GM Willo per 101 Parole - 2008</span><br /></div>GM Willohttp://www.blogger.com/profile/03323592842843726943noreply@blogger.com0