martedì 29 settembre 2009

LA SIMPATIA PER IL DIAVOLO DEI FRATELLI BOGIE


I fratelli Bogie suonavano il blues. Classici di derivazione rock, tipo Cream, Dylan, Stones. Venivano giù al pub alla fine di ogni mese. Non parlavano mai con nessuno. Kit al basso, Rick alla batteria e Pete alla chitarra e voce solista. I loro nomi risaltavano in lettere luccicanti su ogni strumento. Sulla grancassa era disegnato il loro logo, un coniglio saltellante sopra la scritta Bogie’s Brothers. Erano semplicemente magnifici.
Per il pub del paese era un toccasana. Nessuno sapeva di preciso quando sarebbero venuti. A volte li vedevi apparire il ventisette, altre il trentuno. A febbraio potevano sorprenderti il ventiquattro. Per questo motivo il locale era sempre affollato in quei giorni. La gente si metteva da parte i soldi per farsi l’ultima settimana del mese al pub.
Piccoli, taciturni, vestiti in modo vagamente retrò, li vedevi arrivare su un furgoncino wolkswagen color ocra. Entravano dalla porta principale senza salutare, e con gli strumenti sottobraccio si avviavano verso il palco. Il pub diventava improvvisamente silenzioso. Cento, centoventi persone, molte delle quali già un po’ brille, rivolgevano loro un ossequioso omaggio di benvenuto. La folla si apriva come le acque del mar rosso davanti a Mosè. Se qualcuno stava occupando il palco, smetteva all’istante di suonare e liberava il posto.
Loro, piccolini ve l’ho già detto, simili in tutto e per tutto tanto da sembrare gemelli, esibivano un ciuffo sbarazzino che li copriva quasi interamente il volto. Nel silenzio incantato del locale, si udivano solo i tonfi dei loro stivali sul palco di legno e le scariche elettriche degli spinotti. Poi iniziava sempre Rick con le bacchette; one, two, three, four…
Quella sera, la sera di cui vi voglio parlare, stavano suonando un repertorio classicissimo. Avevano attaccato Strange Brew, e Pete muoveva le dita sulla chitarra come il miglior Clapton. Nell’aria c’era odore di sigarette e pesce fritto, quello che si serve di solito con patatine.
Io sedevo insieme a Rico, un ragazzo che conoscevo da quando ero nata ma con cui non ero mai uscita. Quella sera decisi che mi piaceva. Mi piacevano i suoi modi educati, a volte così carinamente impacciati, i suoi silenzi mai veramente imbarazzanti, la spessa montatura dei suoi occhiali, che lo faceva nerd, ma con un certo fascino. Non era il tipo da fare mosse azzardate, perciò mi ero già decisa di baciarlo quella sera stessa. Con certi ragazzi, di solito i migliori, se non si prende l’iniziativa subito si rischia di diventare solo amici. Ed io non volevo essere solo amica di Rico.
Parlavamo di musica, e di che altro sennò. A lui piaceva la prima psichedelica, quella di Jefferson Airplane per intenderci. Ma ascoltava anche roba nuova, il filone elettronico nordico, come i Mum ad esempio. Ci intendevamo su alcuni lavori di Bjork, quelli più sperimentali. Insomma, era un bel parlare. Davanti a noi due pinte piccole di chiara.
Quando i Bogie attaccarono a suonare nessuno parlò più. Venimmo letteralmente rapiti dalla performance. L’impatto di quel sound era una macchina del tempo. Trasportava l’ascoltatore quarant’anni indietro.
Qualcuno in paese diceva che non erano come noi. Nessuno sapeva da dove venissero, nessuno riusciva a parlarci, non accettavano compensi, non bevevano birra… Arrivavano, suonavano e se ne andavano.
Timmi, il figlio del proprietario del pub, aveva provato a seguire il furgoncino wolkswagen, attraverso le curve e i tornanti che portavano fuori dal paese, ma era stato facilmente distanziato.
C’erano storie che dimoravano nelle profondità mnemoniche del villaggio, dicerie, superstizioni, assurdità alle quali tutti facevano finta di non credere. Storie di spettri, di banshee, di piccole creature della foresta, di nani e di giganti. E c’erano anche i Bogies. Si, si chiamavano proprio così.
Quella sera finirono con un pezzo sorpresa. Espressero la loro simpatia per il diavolo in un modo che neanche i migliori Jegger e Co. sarebbero riusciti a fare. Avvertii un formicolio, una sensazione di disagio, ma in qualche modo piacevole. C’era qualcuno o qualcosa che osservava, che ascoltava insieme a noi. Nelle scure finestre del locale andavano a morire i riflessi delle lampadine. Ma vi giuro che una di queste, mentre Pete cantava “piacere di conoscerti!” rimase completamente scura. Afferrai la mano di Rico. Gli indicai il vetro nero, la finestra oltre il palco. E anche lui li vide. Due occhi. Due fiamme brucianti.
Perché davanti ad un buon blues, neanche il diavolo riesce a resistere.

Aeribella Lastelle - 2008

lunedì 28 settembre 2009

ROBERTA

Roberta, invincibile e bella. Le tue mani così candide, delicate, complici le tue cremine del cazzo…
Ti è sempre piaciuto l’arazzo peruviano, quello appeso in salotto. Adoravi quei colori caldi, l’arancione, il giallo, il vermiglione. Te lo avvolgo addosso, così non prendi freddo. Perché in fondo al canale fa molto freddo sai…
Ti rimangono fuori i piedini. Che peccato!
Roberta, lo sai quanto ti ho amato. Gli altri non significano niente.
Allora mi verso del vino.
Tra poco farà buio.
Ti ricordi il ponte di ferro, dove c’incontrammo per la prima volta?
Andiamo là, che ne dici? C’è una bella vista…

venerdì 25 settembre 2009

LA BAMBINA VESTITA DI VIOLA

Oh, mio dio, perché mi chiedi questo? Forse semplicemente perché non esisti. Perché non può esistere un dio buono che permetta a certe creature di camminare sulla terra. È una follia… Tutto è una follia! Ecco che passa di nuovo sul marciapiede davanti a casa, piccola, innocua nel suo vestitino viola. Stringe la mano della madre e guarda in avanti. Non si muove come una bambina di tre anni. È meccanica, apatica, distante. Due occhioni scuri come le notti senza luna. Lei che non è di questo mondo…
No, non prendetemi per pazzo. Non ancora. Datemi una possibilità di spiegare. Fatemi finire, vi prego. Poi fate di me ciò che volete. Impiccatemi all’albero più alto, iniettate il caldo abbraccio della signora nelle mie vene, non m’importa più. Ma prima di voltare lo sguardo e dimenticarvi di questa brutta storia, fatevi dire che cosa può celarsi dietro l’ingenuo sguardo di una bambina di tre anni. Le ragioni della pazzia che sto per compiere…
La prima volta che ho visto la piccola è stato due settimane fa, al reparto bibite del supermercato. Era da sola in quel lungo corridoio, sovrastata da alti scaffali ricolmi di lattine e bottiglie, un cucciolo di tenerezza sullo sfondo di uno squallore quotidiano. La prima sensazione è stata quella di calore, lo slancio emotivo tipico che un adulto prova davanti a un bel bambino. Poi lei mi ha guardato, ed improvvisamente l’abisso si è spalancato davanti ai miei occhi.
Ho passato la mia vita a studiare le persone, le loro culture, la loro storia. Ho una laurea in antropologia ed una in lingue. Ho viaggiato molto; mi sono spinto fino alle sorgenti del Nilo, ho scalato i tetti del Tibet, navigato tra gli atolli del pacifico fino ad approdare alle coste dell’Antartica. So cosa si nasconde dietro il velo calato sulla nostra società. La grande bugia… Ma non divaghiamo. Ci tengo soltanto a precisare che attraverso gli anni e le esperienze ho sviluppato una certa sensibilità, un talento che mi permette di leggere le persone come se fossero libri aperti. Per questo sono convinto di quello che dico. Gli occhi della bambina, nell’istante in cui mi ha guardato, non erano umani.
Idoli e mostri possono cambiare nome attraverso il tempo e con l’avvicendarsi delle diverse culture, ma alla fine rimangono sempre gli stessi. La terra nasconde dei segreti ancestrali che l’uomo del ventunesimo secolo non può permettersi di conoscere. È troppo impegnato a correre dietro alla carota che gli hanno appeso davanti alla bocca. E forse è un bene per lui. Vive ignaro di tutto, venerando Dei inutili, inseguendo assurde chimere. Ma io sono anni che mi dedico al mondo inferiore, quello che non è schiavo del tempo, e attende, inconsapevole di attendere, perché a lui poco importa l’oggi e il domani.
Eccola che ripassa insieme alla madre, una famiglia normalissima. Vivono in fondo alla mia strada. La piccola è figlia unica, ci mancherebbe… Creature così hanno bisogno dei loro spazi. Non sa che la sto osservando. Non immagina che io sappia, e menomale, perché altrimenti per me sarebbe la fine.
Succederà domani, mentre sua madre l’accompagnerà a scuola. La incrocerò sul marciapiede, le darò il buongiorno, e in una frazione di secondo estrarrò il pugnale sacrificale. Devo puntare agli occhi. Sono loro la porta…
Lo strisciante si impossessa delle vite degli umani. Le usa, si balocca, ed infine le abbandona, come costumi da carnevale all’indomani del martedì grasso. Lui manipola la realtà, apre passaggi, inventa scenari. La bambina è il suo abito, e nel suo sguardo ha santificato il cancello attraverso il quale sopraggiungerà Dio. Si, avete capito bene; Dio. Né cristi né profeti, niente di tutto ciò. Vi siete divertiti per tutti questi secoli con le novelle di mamma chiesa? Beh, le favole sono finite, gente! Egli arriverà. Yog-Sothoth è il suo nome, e vaga nel cosmo in globi perfetti di luce. Definirlo come il Male è davvero limitativo. Una banale spiegazione per menti che non riescono ad arrivare oltre i contrasti bianco/nero. Si, perché lui è la sfumatura di tutto…
Pazzo, certo che sono pazzo. Urlate a tutti i vostri amici e parenti che avete appena incontrato un pazzo. Questo vi fortificherà. Vi farà sentire sicuri, così potrete andare a dormire. Dormire… da quanto tempo ormai non mi è concessa un’intera notte di sonno. Appena scendo nelle terre di oniria, palcoscenici di una realtà negata all’uomo moderno, la bambina col vestito viola appare, piccola, insignificante, ma è solo un’immagine riflessa. Lo specchio che rivela il vero le sta di fronte. Non posso rifiutarmi di guardare. E allora Lui appare, essere contorto fatto di pelle e corteccia, un tentacolo enorme al posto della testa e cinque enormi arti (tre sotto e due sopra) muniti ciascuno di tre neri artigli. Un grido esplode nell’oscurità della mia camera da letto. Mi sveglio tra le lenzuola bagnate di sudore. In quei momenti, invocare la morte è tutto ciò che mi rimane.
Ma quando la luce penetra finalmente attraverso le veneziane della finestra, qualcosa dentro me mi convince ad andare avanti con quello che mi sono prefissato di fare. Cerco il coraggio, la ragione di tutto questo orrore. Perché io? E subito mi rispondo; perché no? Ho tutte le carte in regola per affrontare una sfida di questo calibro. Se qualcuno deve prendersi la responsabilità di un gesto così folle (e le sue orribili conseguenze) questo non può essere che il sottoscritto.
Quando leggerete queste righe, se sarò abbastanza fortunato, mi troverò già a marcire dentro una cella. Me lo auguro per voi, perché l’altra possibilità è che Lui preveda le mie intenzioni, e decida di mostrarsi per quel che realmente è. Spero di riuscire a rimandare i suoi propositi. Dico rimandare, perché Loro non si fermeranno di certo davanti al primo imprevisto…
Non pretendo che mi crediate. Anzi, spero che non lo facciate. Che possiate continuare a condurre una vita serena, fatta di amori, figli, piccole soddisfazioni e piccole delusioni quotidiane. Lasciate perdere queste pagine. Sono solo i deliri di un folle, che in una bella giornata di settembre ha infilzato gli occhi di una bambina con un coltellaccio adorno di strani simboli.
Nessuna giustificazione. Solo uno spassionato consiglio; smettetela di pregare.
Non vi servirà a niente.

Jonathan Macini 2008

martedì 22 settembre 2009

TRE MUSICI CONTRO L'INNOMINABILE

tre-musici-contro-linnominabile

Peter e Daevid fecero un salto a casa di Ian, quella vicino al bosco, quella col porticato di legno e il grande camino in pietra. Il tavolo davanti al fuoco era imbandito di liquori, caramelle e funghetti. Insomma, c’era tutto il necessario per passare una bella serata. Una serata in compagnia…
Calarono le ombre, il fuoco continuava a scoppiettare e i tre sedevano beati a raccontarsi storie. Daevid descrisse mondi impossibili, pieni di fiori e di colori. Ian parlò del bosco e dei suoi mille segreti. Peter invece raccontò un paio di filastrocche senza senso. Gli altri fecero finta di niente perché sapevano che Peter era fatto così. Più unico che raro.
Ma insieme alle ombre calò qualcos’altro, ancora più oscuro e terribile. Complice di Tenebra e di Polvere, egli non ha nome, perché è l’assenza del suono, la rottura della sinfonia. Qualcosa di estremamente diverso dal silenzio, che a volte può diventare musica. L’Innominabile è il vuoto sonoro, il divoratore della vibrazione cosmica, il cospiratore di Entropia.
Il suo approssimarsi è sfuggente, uno sfrigolio nella matrice della realtà, giochi di luce e ombre cinesi. Fu il fuoco che scoppiettava ad avvertire i tre amici. D’un tratto danzò in maniera diversa, proiettò ombre maligne. Digrignò le fauci, azzannò l’aria, urlò. Perché il fuoco parla, a chi è capace di ascoltarlo…
I tre si mossero lenti ma precisi. I funghetti e le chicche erano in circolo, e questo amplificava la sensibilità, ma rallentava i riflessi. Lo scongiuro poteva funzionare solo se avessero unito i loro poteri.
Spostarono il tavolo e le sedie, facendo spazio davanti al camino. Poi ognuno afferrò il suo strumento. Daevid suonava il liuto, Ian il flauto e Peter i tamburi. Qualcuno batté il tempo e, allo scoccare del quarto quarto, fu subito musica…
Esistono luoghi che hanno poco a che fare con la realtà, la scienza, la ragione. Sono i luoghi della fantasia, delineati da menti sensibili e cuori romantici, costruiti su dei castelli d’aria fritta, zucchero filato e caramello. In uno di questi potreste forse trovare il prato in cui si combatté questa straordinaria battaglia. Tre musici contro l’Innominabile divoratore del suono.
Chi vinse? Beh, è ovvio. Vinsero i tre amici. Ma l’Innominabile non è stato sconfitto. Egli vaga ancora nello spazio siderale, infilandosi dentro buchi neri, esplodendo insieme a intere galassie. Egli continua la sua eterna lotta contro la Grande Sinfonia, il disegno che ha dato vita a questo nostro universo.
Finché la musica suonerà, saremo al sicuro. Ma dovete promettermi una cosa…
… non spengete lo stereo. Non spengetelo mai!

Aeribella Lastelle

UNA STORIA SENZA FINE

C’era una volta un ragazzo che ogni sera se ne saliva in camera sua a scrivere una storia. Prendeva il suo quaderno a righe, la sua penna a sfera blu, ed incominciava più o meno così:
“C’era una volta un ragazzo che ogni sera se ne saliva in camera sua a scrivere una storia. Prendeva il suo quaderno a righe, la sua penna a sfera blu, ed incominciava più o meno così:
“C’era una volta un ragazzo che ogni sera se ne saliva in camera sua a scrivere una storia. Prendeva il suo quaderno a righe, la sua penna a sfera blu, ed incominciava più o meno così:
“C’era una volta un ragazzo che ogni sera se ne saliva in camera sua a scrivere una storia. Prendeva il suo quaderno a righe, la sua penna a sfera blu, ed incominciava più o meno così…
Adesso penserete che questa storia non abbia una fine, e che sia solamente uno scherzo un po’ sempliciotto di uno scrittone burlone. Invece no! Perché, che ci crediate oppure no, nel ripetere quelle frasi all’infinito, il ragazzo visse per sempre felice e contento. E questa, naturalmente, è la fine della storia.

GM Willo 2008

lunedì 21 settembre 2009

VIRTUAL SOTHOTH

Mi auguro che quello che sto per raccontarvi sia a tutti gli effetti il delirio di un uomo in preda a strane febbri. Che gli eventi ai quali il mio avatar ha assistito, siano solamente il risultato di un’alterazione improvvisa delle droghe in circolo. Che il mondo dentro al quale mi sono proiettato non sia altro che la burla di un server criptato.
Le mie recenti letture potrebbero aver condizionato le mie percezioni. Creature dell’incubo, abbietti abitatori delle remote regioni del cosmo, divinità contorte degli abissi. Le ho credute favole per bambini. Fantasie distorte di menti tenebrose, venute alla luce all’inizio di un secolo buio. Il sogno che codifica la realtà. L’insensatezza di tutto.
Ma ai confini di questo universo fittizio, oltre i corridoi ambrati in cui il sistema binario si comprime, succedono cose strane. Laggiù esistono degli spazi immensi, esuli da qualsiasi legge elettronica. Spesso non sono compatibili con le nostre rappresentazioni, ma a volte puoi incontrare un “match”, un incastro perfetto che risucchia una parte di te, lasciandoti spiare oltre il velo.
Nei grattacieli informatici è possibile recuperare solo qualche brandello di conoscenza, testimonianze anonime di alcune diramazioni esistenziali, la maggior parte delle quali ha solo creduto di innescare un “match”. Il davolin ha fatto il resto. Quando quella roba si amalgama al tuo avatar, puoi vedere dio e sua sorella, e intrattenerti con loro a giocare a biliardo. Ho visto proiezioni rimbalzare per anni dentro un server di recupero, mentre i loro “host” vegetavano nelle cliniche fuori città.
Ma qualcuno si è davvero spinto oltre il velo, e ho paura che anch’io abbia fatto lo stesso.
Il distacco è stato qualcosa di doloroso. Nessuna codificazione percettiva pseudofisica, non se mi spiego… Il dolore non era la riproduzione di un evento nefasto, come succede di solito quando il tuo avatar inciampa. Ho avvertito una specie pulsione neurale all’altezza della spina dorsale, e un vuoto che si sprigionava da un punto ben definito dietro la schiena. Ma poi il dolore si è mosso fuori dal corpo, concentrandosi in una zona circoscritta a un metro e mezzo sopra di me. Ciononostante continuavo a percepirlo, ed era lancinante.
Poi le tenebre sono esplose nella mia testa. Era la morte come me la sono immaginata per anni. Una condizione di assenza assoluta; il realizzare unico della propria percezione. La totale disgregazione dello spazio-tempo. Una perfetta condizione di standby.
Non posso quantificare il tempo che ho passato in tale stato. So solo che ad un certo punto sono comparsi i globi di luce, una serie di sfere iridescenti che mutavano continuamente di colore e dimensione, nascendo e scomparendo.
Il ronzio delle sfere era simile ad un infernale didgeridoo, vibrante, alieno.
Non riuscivo a smettere di secernere bava dalla bocca, come una bestia agonizzante.
Ci sono voluti giorni perché riacquistassi il dono della parola. Ho pianto per settimane, risvegliandomi da incubi indescrivibili, madido di sudore, in preda ad un fredda paranoia.
Col tempo ho ripreso coraggio, ho tentato di razionalizzare l’evento, di convincermi che in fin dei conti non era possibile distinguere una percezione dalla realtà quando eri connesso, che per quanto assurdo avevo creato tutto io, con il mio cervello ormai devastato dalle sinte-droghe; mi ero quasi convinto, dannazione, quando lui suonò alla mia porta…

Il suo trench aveva il colore del lattice appena sgorgato, portava con disinvoltura un taqiyah bianco decorato con piccoli cerchi dorati: il suo sguardo era nascosto da occhiali circolari dalle lenti violacee senza stecche, ma la sua espressione tradiva un odio ed una violenza che rasentava la follia. Non avrei mai voluto farlo entrare nella mia tana, ma non riuscii ad impedirglielo. Non so spiegarvi il magnetismo che emanava, le vertigini che mi assalirono quando si tolse gli occhiali, fissandomi negli occhi senza battere ciglio.
Fu allora che sentii per la prima volta la sua voce. Ancora oggi non riesco a dimenticarla.
“Posso entrare?” Domandò, con un tono ne che non ammetteva alcun rifiuto.
“Chi…io… non la conosco…” balbettai, in preda ad un terrore misto a rispetto.
“Conoscere… usate sempre le parole che non comprendete…”
“Cosa vuole… da me?”
“I suoi ricordi.” mormorò, accennando un sorriso.
“I miei…ricordi?”
Non ho memoria di cosa accadde dopo. L’ultima immagine che riesco a rievocare sono le sue mani orrende che mi afferravano per la gola, le sue dita senza unghie, la sua voce che chiamava qualcuno… o qualcosa…
Mi risvegliai il giorno seguente, il collo mi doleva, ma nessun livido macchiava la mia pelle. L’appartamento era stato messo a soqquadro, il mio deck era stato portato via, per un attimo mi sfiorò l’assurda idea di denunciare l’accaduto alla psicosquadra…
Mi sarei guadagnato un mese di riallineamento neurale a mie spese, non mi avrebbero mai creduto, e gli ultimi brandelli di umanità che mi erano rimasti si sarebbero dissolti.
Mi alzai a fatica, frugai in quel caos in cerca della mia derringer intelligente, ma trovai solo una manciata di chip di credito e un barattolo mezzo vuoto di metaxanax.
Ingoiai le pillole ed indossai il cappotto. Era marzo, ma la neve copriva ancora la metropoli, nascondendo la sporcizia sotto un manto immobile.
Non sapevo dove fuggire, ma quel posto non mi sembrava più sicuro, continuai a chiedermi perché non mi avesse ucciso, mentre correvo nei vicoli imbiancati, mentre scappavo da un terrore che non aveva nome né forma.
Chi era quell’uomo, cosa avevo visto nel cyberspazio, perché voleva i miei ricordi?
Entrai in un drugshop di ultima generazione, sulla 24° via.
Il tanfo di spezie bruciate e di fumo invase le mie narici, mentre il proprietario mi squadrò con disprezzo, scambiando la mia paura per una semplice crisi di astinenza.
“Sei in paranoia, chombatta? Hai un aspetto di merda…”
Uscì dal bancone con lentezza, il suo accento era il frutto di almeno tre culture, così come la sua pelle ed il suo aspetto. Mi indicò un piccolo tavolo rotondo da fumo, mi stesi sul divano puzzolente ed attesi il menù. Più di centocinquanta droghe provenienti da tutto il mondo apparvero nello schermo tattile, con le controindicazioni scritte in font illeggibili.
“Caraqua? Sintecrack? Emostamina? Abbiamo in prova un taglio di Gandhi divino…”
“Siete connessi? E’ possibile connettersi con questo terminale?” dissi, indicando lo schermo incassato nel tavolino da fumo.
“Che cazzo ne so, le odio queste macchine di merda…” rispose
“Mi porti una tisana di Spitznick… bella calda…”
“Da mangiare niente?” non sembrava affatto una domanda…
“Una fetta di torta ESP…senza panna modificata, per favore…”
Non aggiunse altro, lasciandomi solo, davanti al terminale.
Presi un lungo respiro prima di crackare il menù con un movimento delle dita sul touch screen: lo schermo si tinse di nero, rivelando il sistema operativo che gestiva il menù. Ogni deck era connesso alla macronet, una rete di controllo delle multinazionali che monitorava istante per istante ogni comando impartito alle macchine commerciali, “finalmente sicuri” recitava lo spot della sua presentazione.
Avevo poco tempo, mi avrebbero scoperto nel giro di alcuni minuti, ma ero sicuro che mi sarebbero bastati…e forse sarei riuscito anche a “pagare” il conto crakkando il menù.
Se un “disconnesso” mi avesse visto mentre mi scagliavo nella rete esterna sfregando le mie dita sullo schermo tattile mi avrebbe scambiato per un autistico o per un folle, ma il locale era deserto, ed il proprietario era ancora nel retro a prepararmi la tisana.
Trovai l’accesso alla Wayback Machine in pochi secondi, rievocai l’immagine di memoria della mia ultima corsa, incrociando il mio IP con la data della mia esperienza virtuale e le coordinate della mappa interna. Interi terabyte di memoria fluttuavano nello schermo, in attesa di essere compilate. Un brivido mi assalì quando il proprietario sbucò all’improvviso dal retrobottega, con un vassoio lucente in mano. Due rapidi gesti sullo schermo, il menù riapparve all’istante, coprendo il sito pirata con il suo manto di bit.
“Ecco qua…fanno 28 eurodollari… pagamento anticipato, carta o chip?”
“Ho già pagato con il BAMA, mentre era di lá… i prezzi erano scritti nel menù…”
Il proprietario mi squadrò per alcuni secondi, andò in silenzio dietro il bancone e ci mise quasi un minuto per ricordarsi come controllare il pagamento elettronico dal suo server.
“Qui c’è scritto 280 eurodollari…” disse “grazie della mancia…”
Sudai freddo… uno zero di troppo, maledetta fretta.
“É che vorrei… fare un po’ di scorta di metaxanax…”
“Quella merda è illegale… io non vendo robaccia importata dall’Eurasia…” mentì.
L’embargo durava da più di dieci anni, ormai, ma tutti erano consapevoli che il mercato clandestino non solo non ne aveva risentito, ma anzi, aveva solo fatto lievitare i prezzi.
Non dissi niente, lasciai che i 280 eurodollari parlassero per me.
“Però…” concluse “se proprio ti va di scassarti il cervello…”
Tornò nel retrobottega, avevo poco tempo, presto l’accesso illegale sarebbe stato processato dai robot corporativi ed identificato come un attacco terroristico…
Ridussi di nuovo ad icona il menù con un rapido gesto delle dita, il servizio di recupero della rete mi aspettava, come un cane fedele e infallibile… RUN… YES… YES…
Mi ritrovai nel mio appartamento lordo di sangue.
Lessi per caso sul quotifax cosa era successo nel drugshop. Tuttora non ricordo nulla delle ore successive a quei tre comandi…
L’unità antiterrorismo entrò nel locale alle ore 23:07, pochi minuti dopo la mia fuga, evidentemente: trovarono il proprietario del locale in sedici zone differenti…

Da allora qualcosa vive in me, qualcosa di orrendo… di inconcepibile…
Non si tratta di allucinazioni o di un virus di ultima generazione!
Qualcosa di vivo si è impossessato della mia mente, del mio corpo… della mia anima!
Esistono cose che è meglio dimenticare, per sempre, una volta per tutte!
Stai lontano dalla rete! Non ti connettere! Una parte di lui vive ancora in quel Server!
Ormai riesco a comprendere quel ronzio, è una voce, un linguaggio, sta cercando un varco per la nostra realtà! Non sopporto più quel nome che ormai riecheggia nella mia testa, non posso vivere con il terrore che l’uomo in bianco torni a trovarmi…
Mi stanno usando… io sono la chiave, ormai.
Non posso permettergli di uscire dalla mia prigione…
NO! Hanno bussato alla porta… è lui…
La finestra… si… la finestra…Un volo e poi il nulla…
Ti porterò con me, maledetto… Non tornerai a vivere!
NON APRIRAI IL CANCELLO YOG SOTHOTH!

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Grezzo Illusivo 2008

domenica 20 settembre 2009

L'INIZIAZIONE

«Papà, tu qui?!»
Lo sguardo del vecchio si posò sull’aspirante adepta. Le neri vesti dei quindici sacerdoti giacevano riverse sul freddo pavimento del tempio, insieme a quella ridotta a brandelli della ragazza.
«Innanzi all’Entità Cosmica, tu non sei mia figlia. Sei farina di stelle, cellula del disegno.»
Gli uomini le si fecero appresso. Lei continuò a rimanere aggrappata alla sua umanità. Poi avvertì il tocco di una, dieci, venti mani. Le carni si fusero in una danza di nervi e mucose, gemiti e rantoli, fragranze e sughi. Non una banale ricerca del piacere, ma il sigillo immacolato di una grande iniziazione.

GM Willo 2008 per 101 Parole

venerdì 18 settembre 2009

IL DIO DEI DINOSAURI

Attorno al bar Cosmo i mondi ruotano su orbite ben delineate, per dirigersi inevitabilmente verso destini già scritti. Nel locale l’atmosfera è satura di luci soffuse, vortici di fumo dagli aromi pungenti e melanconici assoli blues. Ogni sera è così…
Dietro al bancone Toth il barista asciuga bicchieri e tazzine con gesti automatici, riponendo poi le stoviglie nei loro rispettivi scompartimenti. Alcune divinità si riuniscono attorno al biliardo, mirando le stecche su pianeti deserti, presi in prestito dai loro universi. Gli sferici oggetti, liberi dalle loro orbite-prigioni, girano sul tappeto verde partecipando al gioco. Presto o tardi verranno ingoiati dai buchi neri del biliardo.
Al bar Cosmo gli Dei cercano di distrarsi dai loro affari, ma a fine serata è normale che si ritrovino a parlare di lavoro.
Quella sera, a un’ora un po’ tarda, entrò un Dio piccolo piccolo. Al bar lo conoscevano tutti. Era un tipo un po’ bislacco, con delle idee buffe, e molti lo prendevano anche in giro. Afferrò un bicchiere e un cucchiaio e richiamò l’attenzione dei presenti. Annunciò la sua ultima creazione, una nuova specie vivente per il suo piccolo mondo. Una specie molto, molto più intelligente di tutte le altre, fatta a sua immagine e somiglianza, e capace di comprendere i più grandi segreti del cosmo. Una specie che col tempo avrebbe dominato su tutti gli altri esseri viventi.
I giocatori di biliardo si guardarono in silenzio e a qualcuno scappò una risatina. Poi tornarono a giocare, come se non fosse successo niente.
«Secondo me questa tua nuova invenzione fa la fine di quell’altra. Com’è che li chiamasti quei mostri? Dinosauri?» affermò un Dio, spedendo il pianeta numero otto in un buco nero laterale.
«Già, ricordo che dicesti che quei lucertoloni avrebbero dominato gli altri esseri con la loro forza. Ma ti dimenticasti di qualcosa, se non sbaglio…» ribatté un altro, ammiccando sardonicamente ai compagni di gioco.
«È vero, feci un piccolo errore di calcolo. Ma questa volta non si ripeterà. Ho progettato questi esseri fin nei minimi dettagli. Sarà la mia più grande creazione, vedrete!» E detto ciò l’ambizioso Dio lasciò il bar Cosmo.
Gli altri invece continuarono a giocare a biliardo.
«Scommetto dieci galassie che questa nuova specie non dura più di tre rotazioni» commentò un giocatore, lavorando la punta della sua stecca col gessetto.
Al bar Cosmo Toth il barista continuava ad asciugare i bicchieri.

GM Willo - 1997

giovedì 17 settembre 2009

LA VILLETTA DI PAPÁ



Lacrime di sangue sulla faccia della luna. Un ululato lontano squarcia il disegno delle tenebre, mentre arranco fuori dal seminterrato della villetta di papà, quella sulle colline.
Mi accendo una sigaretta. Ho le mani lorde ma non ci bado. Le cime degl’alberi si muovono nel riverbero delle luci artificiali, quelle dell’autostrada vicina. Autisti notturni sfrecciano a meno di duecento metri da dove mi trovo, del tutto ignari del macello appena compiuto.
Il sapore della sigaretta è buono. Ho appoggiato volutamente le dita alle labbra. Ho gustato il lordume mischiandolo al tabacco. Ferro e humus.
Perché uccido? È una domanda alla quale ho provato di rispondere spesso. Non è facile. È un po’ come chiedersi perché si respira. È una domanda sciocca. Spesso me la pongono anche le mie vittime, un attimo prima che la festa abbia inizio.
David e Luana. Si chiamavano così quelli di stasera. Il pretesto era scontato, un threesome a casa mia, tutto organizzato in chat; la coppia e lo sconosciuto. Adoro fare la parte dello sconosciuto…
Nell’email specifico ai due che è meglio se vengo loro incontro. La strada per raggiungere la villetta è dissestata e ci si può arrivare solo con un fuoristrada. Li vado a prendere al casello dell’autostrada, lasciamo la loro auto in una stazione di servizio chiusa, poi andiamo tutti quanti su con il mio cheerokee. Sono davvero carini, trentacinque lui, appena ventisette lei. Quando imbocchiamo lo sterrato, quello che porta alla villetta, avverto la prima erezione. Incomincia sempre così.
Parlo con loro ma la mia mente è altrove. Temo di aver dimenticato a casa il seghetto. Sarebbe un bel problema. Potrei risolvere con l’accetta, ma quella fa sempre troppi schizzi. E poi chi glielo dice a papi…
Quando entriamo in casa mi fanno i compimenti per l’arredamento, poi li faccio accomodare in salotto. Servo del brandy e della cola. Lei non beve.
Davanti al camino parliamo del più e del meno. Lei gestisce un piccolo negozio di scarpe, lui è istruttore di golf. Io dico loro che faccio lo scrittore, una bugia che mi viene sempre bene.
Ma non siamo lì per parlare. Dieci minuti dopo Luana me lo sta succhiando sul divano, mentre il suo compagno incomincia ad eccitarsi. Il fuoco scoppietta come un dannato, in sottofondo ho messo del lounge, ma si sente appena. Percepisco invece i mugolii di lui e i risucchi di lei.
David si avvicina. È accaldato dal fuoco e dalla situazione È pronto a prendere la sua compagna da dietro, mentre lei continua a darmi piacere. Ma non glielo permetto.
La beretta esplode in faccia all’istruttore di golf. Pezzi di cervello vanno a sfrigolare sui tizzoni del camino. Sento la mascella di Luana tendersi sul mio membro. Si è accorta della sorpresina. La prendo per i capelli e la sollevo. Lei urla. In faccia le leggo un terrore alieno, e me ne felicito, perché ne sono l’artefice.
Ordino al telecomando di alzare il volume dello stereo. Lei può urlare quanto vuole. Il ritmo è incalzante, c’è anche un bel sax.
Luana è piccola. Ci mette tutta la forza che ha in corpo, prova a divincolarsi, ma io le afferro una mano, la giro, la immobilizzo. Un attimo dopo è mia prigioniera. La festa può incominciare.
Nel seminterrato tutto è pronto. Purtroppo i miei dubbi vengono confermati. Non c’è il seghetto. Sorrido alla mia complice e condivido con lei il mio disappunto. Lei è imbavagliata. Mi risponde sbattendo le palpebre e soffocando un gemito. Come la capisco…
Luana ci mette venticinque minuti a morire. Fa bene il suo dovere. Rantola, defeca, schiuma. Insomma, tutto il repertorio. Io provo nuove tecniche. Alcune mi lasciano soddisfatto, altre meno. A fine opera mi convinco che ho bisogno di nuovi strumenti.
La notte è tiepida. La sigaretta è a fine. Mi perdo nel disco lunare. Anch’io vorrei ululare insieme a quel lupo. Come lo capisco…
A valle distinguo le luci della jeep, puntualissima. Sale lentamente verso la villetta, sballottata dalle buche e dalle pietre più grosse. Le vado incontro.
Si ferma accanto al cheerokee.
«Ciao papi!»
Papà mi guarda con un interrogativo negli occhi.
«È tutto pronto» lo rassicuro io.
«Bene…» risponde. È fiero di me.
«Di sopra bisognerà passare lo straccio…»
«Non ti preoccupare figliolo. Lo facciamo insieme, più tardi.»
Lo vedo sparire nel seminterrato.
Buon’appetito papà.

Jonathan Macini - 2008

mercoledì 16 settembre 2009

LA DONNA CHE PARLA AI CADAVERI

Cadono gocce di luna sullo smalto che ricopre le sue unghie. Se ne spezza un’altra, mentre le mani affondano nella terra smossa. Per amore si fa questo ed altro… e non è la prima volta.
Katelina riesuma i cadaveri per farli parlare. Il sortilegio è antico, un segreto perso nella notte dei tempi. Ha bisogno di sapere se lui le ha detto la verità. Se fosse così, avrebbe richiamato tutta l’oscurità che dimorava in lei per riuscire a salvarlo. Le tenebre che spazzano via le menzogne, urlando il loro bisogno di verità.
Per amore si guarda in faccia alla morte… ridendo.

GM Willo per 101 Parole - 2008

martedì 15 settembre 2009

JESSICA


Un sogno, nient’altro che un sogno.
Eppure ancora mi pare di riviverlo. Il profumo di orchidee, la bocca carnosa che mi sfiora la schiena, il respiro caldo sul mio corpo. E poi gli artigli, accarezzanti sulle costole, lenti ma inarrestabili verso il linguine. Il sesso nelle sue mani, ed io completamente perduto nel suo gioco.
Vorrei potermi convincere che solo di un sogno si è trattato. Vorrei riuscire a credere che le lenzuola, che adesso stringo tra le mani, non sono macchiate del mio sangue. Ed in realtà non lo sono, ma che importanza ha la realtà in una storia come questa… Io continuo a vederle, e questo mi basta.

Ieri sera sono tornato a casa tardi. Mentre aprivo il portone già si vedevano i riverberi mattutini. La sbornia stava passando. Succede sempre così. Quando la stanchezza prende il sopravvento, i fumi dell’alcol si dissolvono. La notte perde significato. Quel che è stato è stato…
Il Charlie, la barista, tre giri di rum, e poi a casa del Gringo per un paio di freghi, il temporale, la corsa in auto, le amichette, e infine lei: Jessica.
Che cosa ci faceva Jessica con quei tipi lì?
Quando la vidi non me lo chiesi. Le misi la lingua in bocca e ci perlustrammo sul divano. La coca funzionava. Potevo assaggiare i lamponi tuffandomi nelle sue tonsille. Mi afferrò il cazzo e mi sorprese un’erezione. A quell’ora, dopo tutto che avevo buttato giù, ci voleva altro che un bacio e una sega per svegliarlo.
Jessica.
Mi disse: “vado in bagno”. Ed io la seguii. Volevo farmela da dietro, appoggiata al lavabo, guardarla in faccia nello specchio mentre la facevo godere. Ma lei aveva chiuso a chiave la porta. Che avessi capito male?
Jessica aveva capelli neri e lisci, un trucco vistoso, eccentrico ma piacevole. Mi ricordava Cleopatra interpretata dalla Taylor. Ed io volevo essere il suo cobra.
Bussai alla porta del bagno. Nessuno rispose. Mi si avvicinò il Gringo, porgendomi una birra. Mi chiese se andava tutto bene, se mi piaceva la tipa. Io gli risposi di si. Gli domandai se la conosceva, e lui mi disse semplicemente che era nuova. Già, proprio così. Nuova. Che cazzo voleva dire! Comunque lui se ne tornó in camera dalle amichette, mentre io provai a chiamarla da oltre la porta. Sentivo l’acqua scorrere. Nient’altro.
L’erezione era andata. Anche la coca era andata. Mi ero stancato di quel giochetto. Afferrai la giacca e corsi fuori. Jessica poteva anche essere una gran bella scopata, ma ne avevo le palle piene di quella situazione. Montai in macchina. L’orologio sul cruscotto segnava le 4:59. “Fanculo”, pensai. E me ne tornai a casa.

Poi il sogno.
Era lei, Jessica. Apparsa in una notte imbrogliona, gustata per sbaglio su un divano di pelle. Esistono creature che lasciano il segno, come agenti segreti disseminano cimici per spiarci. Jessica, donna obliata ed obliante, blasfemia evocata per esercitare il male, in nome di assurde entitá. Non ha ucciso me, ma una parte di me. Quel sangue che suzza le lenzuola non è roba organica. Viene da qualche parte distante, qualcosa che noi umani, narcisisticamente, chiamiamo Umanità. Lei me l’ha portata via.
Il vento smuove le tende della camera da letto. Un vento strano. Porta con se un nauseante profumo di orchidee rancide. Qualcuno ci cammina sopra. Hastur è il suo nome.
Stanno arrivando. Jessica è una di loro. Quante ce ne sono a giro la notte…
Non fatevi trovare.
Stanno arrivando.

Jonathan Macini - 2008

lunedì 14 settembre 2009

LEI NON SA CHI SONO

Mi ha invitato a bere qualcosa. L’appartamento è grazioso. Mette su un po’ di musica, poi sparisce in cucina. Torna con due bicchieri e una promessa di letto.
Le tolgo i drink. La stringo. Le faccio scivolare una mano sotto la gonna. Ma la mano è già un tentacolo.
La penetro con l’estremità gommosa di quell’appendice. Adoro prendere forme nuove. Le leggo sorpresa negl’occhi. Le piace per un po’, poi soffoca un grido. Non capisco se di piacere o di paura.
Urla mentre affondo negl’intestini. Lei si dimena. Danza.
Finalmente raggiungo il cuore. Lo accarezzo. Lo afferro. Lo strappo.
Dormi, piccina.

Jonathan Macini - 101 Parole

LA STORIA DI UN DIARIO

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New Orleans; 1 Novembre 1925 - ore 6:30

E’ l’alba e mi sono svegliato come al solito; ormai è diventata un’abitudine.
Sono bagnato fino alle punte dei miei capelli; mi sono avvicinato allo specchio e ho visto il mio volto bianco e scarnito.
Mi sveglio così ogni mattina ormai da molte settimane; ogni volta che mi guardo allo specchio ho l’impressione di essere invecchiato.
Sono stanco e affaticato, e il mio respiro rantola; devo vedere un dottore il più presto possibile…
Ormai sono passate due settimane da quando sono scampato alla Confraternita; ogni vicolo, ogni ombra mi sembrano sempre più vicini.
Mi affaccio alla finestra e osservo con occhi pigri lo scenario che mi si presenta, e subito mi prende l’angoscia.
Mi sovviene un sermone del Maestro: “L’alito dei Grandi Antichi pervade le vostre anime”.
New Orleans si è svegliata con una fitta nebbia ed io ne sono assorbito; nulla sembra filtrare attraverso, e anche i rumori sono sordi.
Mi devo preparare; una buona colazione ad base uova e bacon e via verso il porto…
Ne ho parlato con il professore, e lui mi aspetta a casa sua a Cardigan; il viaggio è lungo ma spero che ne valga la pena.
La Mermaid Blue sarà la nave che mi porterà a destinazione. Non è di lusso ma per il mio vagabondare è più che perfetta; cabine accoglienti, bagni singoli e una piccola sala ristorante che all’occorrenza diventa anche una sala da ballo.
Presto, presto che sono in ritardo……….

1 Novembre 1925 ore 21:30

Siamo partiti con 3 ore di ritardo sembrava che la nebbia avesse inghiottito la rotta della nave. Dopo vari tentativi siamo riusciti ad trovare la via del mare, con molta fatica visto che il mare non aiutava. I passeggeri erano molto inquieti per via del ritardo. Il capitano Dorcas, ha riassicurato i passeggeri, motivando che era una manovra di routine prevista in caso di nebbia
Adesso l’oceano si apre davanti ai miei occhi, una massa scura e informe che sembra invitarmi ad una macabra danza. La baia di Cardigan è lontana molti giorni di viaggio, e questo tempo mi aiuterà a riflettere, nella speranza di ritrovare il sonno perduto.
Eppure la foschia, che avvolge ancora New Orleans alle mie spalle, sembra ancora tallonarci, come se dispiegasse i suoi tentacoli verso il largo nell’intento di spiarci.
Non mi fido della nebbia, e non mi fido dei suoi significati…
L’inverno non è lontano, lo posso avvertire nel vento che sferza quassù a prua. Nessuna stella nel cielo, e menomale. Anche loro potrebbero sorvegliarmi.
Comunque è troppo freddo per rimanere fuori a far compagnia alla notte.
Me ne scendo sotto coperta e allungo un bigliettone extra al barman, con la speranza che mi possa servire qualcosa che mi rianimi un po’, e scacci via il freddo che mi è penetrato nelle ossa.
Lui mi guarda inarcando le sopracciglia, poi apre un cassetto dietro al bancone con l’aiuto di una grossa chiave, e mi serve un doppio malto.
Lo ringrazio di cuore, ma lui non accenna neanche un mezzo sorriso.
Poco importa; mi sorseggio la medicina senza dare a vedere.
Nella sala ristorante siedono solo una silenziosa coppia di mezza età ed un uomo dal vestito grigio, assorbito totalmente dal Daily News.
Mi avvicino all’enorme vetrata che con l’aiuto dell’oscurità esterna riflette le tenui luci del ristorante ed il mio volto, emaciato e pallido. Più mi avvicino al vetro e più mi si rivela il paesaggio esterno.
La nebbia è ancora lì, troppo vicina per non nascondere un mistero; troppo densa per poter appartenere ad una normale condizione meteorologica.
Poi un ombra…
Il bicchiere mi scivola rompendosi con un rumore secco, il mio volto si contorce in una smorfia, la mia mente precipita per attimi che sembrano eoni…
Solo il paravento dell’incredulità e l’antidoto della coerenza riescono a farmi tirare un nuovo respiro e a convincermi che quell’ombra non era altro che un grosso gabbiano.
Mezz’ora dopo sono sotto le coperte, ma non ho ancora smesso di tremare.

3 Novembre 1925 ore 13:30

Finalmente la nebbia si è dissolta così come era venuta, e anche i passeggeri sono usciti dal loro guscio; stamattina mentre facevo colazione ho conosciuto la coppia di mezza età: Alfred e Lorna Sherman.
Alfred è una persona riservata dal viso spossato ma dai lineamenti di chi ad vissuto una esistenza di rigore, mentre la sua consorte Lorna ha un volto rotondo e una parlantina che pare di quelle comari da cortile.
Lorna mi ha raccontato che loro avevano due figli, Rupert e Gordon, ma la guerra glieli aveva strappati. Alfred, prima di andare in pensione, era stato un venditore di Bibbie, un lavoro in cui si era dedicato in modo molto scrupoloso. Lorna invece era la classica donna di casa
Erano sulla Mermaid Blue per la loro secondo viaggio di nozze; io da canto mio gli raccontai che ero un alienista; un termine con cui si indica chi si occupa delle malattie mentali, e che stavo facendo una crociera d’affari. Non volevo che Lorna si immischiasse più del dovuto, visto il rischio che sto affrontando con la Confraternita .
Gli Sherman mi hanno invitato per cena al loro tavolo, ma sono indeciso se andarci oppure no. Mi devo rilassare, poi vedrò se è il caso. Avevo bisogno di un bagno rigenerante, quindi ho ringraziato i coniugi e mi sono avviato alla mia cabina.
Mentre scorreva l’acqua calda nella vasca, mi sono avvicinato ad un vecchio grammofono che si trova vicino al letto e ho fatto suonare Down Hearted Blues. Sotto l’influenza della musica e il calore del l’acqua i mie pensieri sono cominciati a vagare.
Maledico ancora gli eventi in cui mi hanno portato fino ad qui, alla mia voglia di sapere, alla mia caparbietà nel carpire la realtà.
Sarà per questo che avrò intrapreso il mestiere di ricercatore sul campo; tutte le mie lauree nelle più rinomate università e tutti miei viaggi non sono serviti a nulla dopo quel fatidico giorno.

Era il 19 Agosto del 1918 e mi trovavo a Tell-el-Amarna per un convegno sulle ultime scoperte archeologiche; il caldo era allucinante, l’aria era arida e nel vento c’era profumo di tè. Erano le 13:30 quando bussarono alla porta della mia stanza d’albergo; aprii e davanti mi trovai Hassan.
Dopo i soliti rituali di benvenuto, Hassan passò a parlarmi d’affari; egli era in contatto con un suo collaboratore, un tombarolo in gergo, che era venuto nel suo negozio di antiquariato con un pezzo unico. Secondo lui lo dovevo assolutamente esaminare prima che qualche mio collega ne venisse in possesso.
All’ inizio fui un po’ titubante, ma con lui avevo sempre fatto buoni affari, quindi mi feci accompagnare dal suo amico.
Mi ritrovai in un tipico Bazar dove si serve tè e si fuma narghilè; le persone che frequentavano il locale non erano sicuramente dei gentleman; dai loro occhi trasudava odio.
Hassan mi indicò con lo sguardo il tavolino dove era seduto un uomo dal viso sciatto e le mani ossute; era il nostro contatto. Ci sedemmo e ordinammo del tè.
L’individuo non parlava la mia lingua così Hassan fece da traduttore. La sua voce era esile; cominciò ad raccontarci che durante una sua perlustrazione nel deserto in cerca di sepolcri, si era improvvisamente ritrovato in mezzo ad una tempesta di sabbia.
Decise di accamparsi nell’attesa che la tempesta finisse; mentre la bufera era in corso notò che la duna che si trovava davanti a lui si era mossa mostrando degli scalini che scendevano verso l’oscurità.
Pensò che Allah gli aveva teso una mano; un tomba nascosta, Vi si addentrò percorrendola in tutta la sua lunghezza, e dopo varie insidie si ritrovò nella stanza principale.
Ne rimase sconcertato e raccapricciato; mai in tutta la sua vita aveva visto una tomba così anomala. L’ambiente non era molto grande; ci entravano dieci persone al massimo e al centro di esso vi era il luogo della sepoltura.
Le pareti della stanza erano ornate da strane figure, diverse dalle lingua dei suoi avi. Era certo però di trovarsi dentro la tomba di un sacerdote di Set.
Nel muro di fronte a lui si ergeva la figura di Set, ma non era nella sua forma divina, bensì in quella umana. Era seduto su uno scranno e la sua pelle era ricoperta di squame di serpente. Davanti a lui una schiera di uomini e strani rettili provvisti di gambe e di braccia, che indossavano singolari tuniche. Gli adepti offrivano in dono un fanciullo. La sepoltura era arabescata da singolari scritte e simboli.
In principio il tombarolo indietreggiò, ma poi, ripensando all’enorme ricchezza che avrebbe probabilmente recuperato dentro al sarcofago, si rincuorò e decise di aprirla.
Prese un kepesh che giaceva lì per terra, e con quello fece forza per schiudere la tomba. La aprì e lì il suo cuore rimase fermo per un istante. Non vi era la solita mummja, che in arabo significa mummia, ma il corpo di un uomo ricoperto da un bozzolo come quello di una farfalla.
Solo il volto era visibile. Egli stramazzò per terra dal terrore; pensò di fuggire, prima che in quel luogo maledetto si manifestasse l’ira di Set. Poi si disse ad alta voce che Allah lo avrebbe protetto e che nessun demone poteva ferirlo. Si alzò e guardò dentro al sarcofago.
Ai piedi del morto vi era una pietra nera. La prese e corse via come una lepre inseguita da un cacciatore.
Da prima lo guardai come si guarda un folle. Diedi un’occhiata al mio amico e capii.
Infuriato mi alzai di scatto dalla sedia e gli dissi che se voleva incrementare il prezzo non aveva bisogno di raccontarmi questa fandonia. Quindi girai le spalle e feci per andarmene.
Fui preso per un braccio dal Hassan. Era calato un silenzio quasi spettrale e tutti gli occhi dei quei loschi gentleman erano adesso su di me; il tombarolo disse che se volevo una prova dovevo seguirlo.
Riflettei un attimo, poi preso sia dalla mia curiosità, sia dall’impressione che un mio rifiuto avrebbe scosso gli animi dei gentleman, accettai.
Il tombarolo uscì dal Bazar con un passo molto spedito. Sembrava che lo inseguisse il Diavolo in persona. Ad ogni incrocio si soffermava con la paura negli occhi, come se qualcuno o qualcosa lo osservasse.
Raggiungemmo la sua dimora e ci fece accomodare a un tavolino; dal suo nascondiglio tirò fuori la pietra e me la mostrò tenendola in mano.
E per la prima volta la vidi; ero stupito, eccitato. Forse ero davanti alla scoperta del secolo, oppure alla truffa più colossale della storia. Si trattava di un sasso nero come la notte, liscio e fosco, grosso come un uovo di struzzo e con sette caratteri criptici incisi sulla sua superficie.
Allungai la mano per poterlo esaminare meglio, ma l’uomo lo ritrasse a se. Se volevo la roccia dovevo sborsare i soldi, e il prezzo era molto alto. Purtroppo quella somma non l’avevo dietro con me, quindi combinammo di vederci più tardi.
Mentre il tombarolo riponeva la pietra, scorsi il suo nascondiglio, ma non lo riferii ad Hassan che era intento a parlare con lui.
Ritornammo all’albergo e mi accordai con Hassan per l’ora del appuntamento. Le una e 30 di notte.
Passai tutto la giornata in frenetica attesa. Sembravo un bambino che aspetta i doni di Natale; la curiosità mi stava uccidendo.
Giunta l’ora ci affrettammo ad raggiungere la casa del tombarolo. Arrivati davanti alla porta di casa, Hassan fece il gesto di bussare ma vide con suo stupore che la porta era leggermente aperta. Entrammo e ci ritrovammo davanti al più efferato e atroce delitto. Allah non lo proteggeva più…
Il tombarolo giaceva a terra con il ventre squarciato. Sembrava che qualcosa fosse fuoriuscito dalla cassa toracica; il volto era violaceo e il sangue era sparso per tutta la casa .
Hassan corse fuori dall’ abitazione dando di stomaco; io ero terrificato e disgustato, ma approfittando della breve assenza di Hassan, mi indirizzai verso il nascondiglio, e qui con mio sorpresa oltre che alla pietra vi trovai un papiro.
Lo aprii con delicatezza e vidi che sulla pergamena vi era disegnata la pietra e vi erano epigrafe a me sconosciute. Il papiro era senza dubbio autentico. Adesso dovevo conoscere, carpire la realtà…


Da allora sono passati più di sette anni, un tempo considerevole se lo si passa piegato su tomi bizzarri circondato da arcane suppellettili. Ma se gli oggetti possono scomparire nei fondali marini, ed i libri bruciare in alte lingue di fiamma, la conoscenza rimane, e nel mio caso è come un mostro tentacolato che mi stritola lentamente le cervella.
Come vorrei che quella pietra fosse rimasta dove era, che l’assassino del tombarolo si fosse portato via quel mistero. Più volte mi sono chiesto perché mi fu lasciato quell’indizio; una torta di mirtilli freschi davanti agli occhi di un bambino goloso…
Si dice che chi guarda oltre il velo della grande bugia senza impazzire ha mosso il fatidico passo dentro l’abisso. E l’abisso è davvero profondo, credetemi…

4 Novembre 1925 – ore 18:30

Adesso ne sono certo; la Confraternita ha un uomo a bordo. Se è la pietra che cerca, non la troverà di certo addosso a me, o nella mia cabina. Dovrà aspettare che arriviamo a Cardigan, e per allora spero di aver scoperto chi è.
Stamattina dopo colazione sono rientrato in camera a prendere il mio quaderno degli appunti, ed è allora che mi sono accorto della presenza del topo. E’ stato bravo a cercare senza lasciare tracce, ma non abbastanza per il mio occhio esperto.
Il telo con cui copro il mio bagaglio, una cassapanca di famiglia del tardo ‘800 di cui vado molto fiero, è di un tessuto egiziano dai motivi sgargianti. Difficile riconoscerne il sopra e il sotto.
Il topo sicuramente non ci ha fatto caso ed ha ricoperto la cassa, dopo averla sicuramente ispezionata, senza badare al disegno del telo.
La Mermaid Blue trasporta tabacco per una grossa compagnia. Ci sono due inservienti che si prendono cura dell’enorme carico che occupa gran parte della stiva. Dorcas mi ha assicurato che non c’è nessun altro sulla lista passeggeri oltre al personale di bordo, i due inservienti e i passeggeri.
Non ho parlato al capitano dei miei sospetti. Vorrei riuscire a passare inosservato il più a lungo possibile.
La riservatezza dell’uomo col Daily News è troppo appariscente per renderlo un indiziato. I coniugi Sherman li escluderei a priori. Poi vi sono i McEwans, una tranquilla famiglia del New England in viaggio verso i lontani parenti scozzesi. Si fanno vedere poco, hanno tre figli piccoli che scorrazzano a volte sul ponte, e si fanno portare la cena nella loro cabina, ogni sera. Un profilo che esaurisce ogni sospetto.
Ho pensato a qualcuno della ciurma di Dorcas, ma ho esclusa anche questa alternativa. No, sono convinto che il topo è un clandestino, e prima di avvistare le scogliere britanniche sarò riuscito ad acciuffarlo.

5 Novembre 1925 – ore 10:30

Stanotte ho fatto un incubo.
Mi sono svegliato con il cuore in gola e le labbra aride. Le lenzuola erano fradice di sudore e esalavano un odore agre e pungente.
Sono andato in bagno per sciacquarmi il volto; le mie mani tremavano ancora .
Alzando lo sguardo oltre l’oblò che si affaccia sulla passerella della nave ho visto nella penombra due occhi ambrati che mi osservavano.
Di scatto mi sono ritrovato con le spalle al muro e con le gambe di gelatina. Ho incominciato a gridare istericamente. Gli occhi erano come quelli di una belva che osserva la sua preda.
Sono rimasto per un ora accucciato nell’angolo in posizione fetale, aspettando la mia fine per un tempo che sembrava un’eternità.
Poi ho alzato la testa per guardare, ma non vi era più nulla. Da allora sto cercando di convincermi che si è trattato solamente di un’altra allucinazione.
Tornato a letto ho cercato di ricordare l’incubo; mi trovavo a poppa della nave e intorno a me solo la foschia e un silenzio innaturale. Camminavo in cerca di qualcuno ma d’un tratto calpestai qualcosa. Mi chinai per osservare e vidi che le mie gambe ero ricoperte da una melma vischiosa di color porpora, una sostanza che mi imprigionava al suolo.
Mentre cercavo di liberarmi da quella massa gelatinosa, cominciò ad echeggiare nell’ aria uno strano suono; Tekeli-li, Tekeli-li… Più tentavo di liberarmi e più l’eco si faceva forte e vicino.

5 Novembre 1925 – Ore 23:00

Camminatori dell’incubo, sospiri nel vento, acri odori di decomposizione…
Ho trovato la grossa chiave del barman ed ho afferrato la medicina. Stanotte solo questa bottiglia potrà aiutarmi a rivedere la luce del giorno…
Non è un uomo il clandestino. Non è un uomo colui che cerca me e cerca la pietra.
La rivelazione mi contorce le viscere. Hanno evocato uno di quelli…
L’ho visto mentre il cielo si oscurava, e il sole scompariva nel mare all’orizzonte. In quel momento le luci e le ombre si sposano, procreando le assurde creature del vespro.
L’essere mi osservava da oltre la balaustra del ponte di poppa, più rialzato rispetto al resto della nave. Un’ombra con corna e coda, e due occhi di fuoco liquido. Potrei giurare di avere intravisto un ghigno…
Se mi è concesso di vivere è perché ancora non è riuscita a mettere le mani sulla pietra.
Vorrei poter dimenticare dove l’ho nascosta, perché non mi sorprenderei se quella creatura fosse in grado di penetrare la mia mente ed estirparmi il segreto, insieme alla mia massa celebrale…
Devo trovare un arma. Devo provare a difendermi.
Il capitano, forse…

6 Novembre 1925 – ore 11:30

Sono entrato nella cabina di Dorcas stamattina. Mi sono sentito un ladro, ma dopo ieri sera non avevo altra scelta.
Il whiskey è riuscito a stordirmi, ma al risveglio la mia testa pulsava.
Il capitano ha una piccola artiglieria che tiene nascosta in un armadio a muro. Cercare e recuperare oggetti è la mia professione, non troppo diversa da quella di un ladro…
Mi ci sono voluti dieci minuti per trovare la chiave dell’armadio.
Ho afferrato una revolver calibro 38 che giaceva in fondo a un cassetto, nella speranza che Dorcas non se ne accorga subito.
Sei proiettili…
…mi chiedo se saranno sufficienti…

7 Novembre 1925 - ore 10:30

Un grido disperazione mi ha destato dal sonno. La signora McEwans era in lacrime di dolore; stamattina, finita la sua colazione, è andata a svegliare i suoi pargoli ma non erano più nella loro cabina. Il capitano e tutto l’equipaggio hanno perlustrato la nave in lungo e largo, ma senza risultato. Che il clandestino gli abbia divorati? Che tremendi pensieri mi ronzano nella mente; quale pasto orrendo egli avrà mai fatto. I McEwans sono al totale sbando, completamente scioccati ed inermi. Devo fare qualcosa…

7 Novembre 1925 – ore 22:10

La nave è nel panico.
Questo pomeriggio uno dei due inservienti della compagnia di tabacco è stato ritrovato dentro la sala macchine, sparso un po’ ovunque… Mentre scrivo mi è tornata in mente la scena e ho dovuto correre nuovamente in bagno a svuotare uno stomaco già vuoto.
Dorcas ha ordinato a tutti di chiudersi nelle proprie cabine fino a nuovo ordine. Ha armato i suoi uomini e adesso stanno dando la caccia all’assassino. Ma ho appena sentito delle urla, e non credo che appartengano alla creatura dell’incubo che sta cercando la mia pietra.
Stringo il calcio della revolver fino a farmi sbiancare la mano. Non ne ho mai usata una, ma non esiterò a farlo, se me ne sarà data la possibilità…

8 Novembre 1925 – ore 00:35

Ucciderà fino a quando non gli avrò dato la pietra. Poi continuerà ad uccidere… Ecco qual’è il piano dell’infima creatura a bordo.
Nelle ultime due ore vi sono state altre urla, una delle quali poteva essere la signora Sherman. Povera donna… Ed è tutta colpa mia!
Non posso continuare a nascondermi. Questa pazzia deve finire, adesso!

8 Novembre 1925 – ore 12:10

Splendi sole, la nebbia è lontana, il buio e fuggito, non odo il ruggito, è tutto finito…
Un solo proiettile in canna, mi guarda dal buco e sono convinto che mi stia dicendo “fammi uscire!”. Il dito scivola sul grilletto, ma ancora non preme, non è ancora il momento…
Sono l’ultimo superstite della Mermaid Blue. La nave è fuori rotta, si spinge sempre più a sud, e il caldo ne è testimone.
Alzo lo sguardo ed osservo nuovamente quella massa gibbosa di carne e pelo che giace nel suo stesso sangue scuro, accanto a me, sulla banchina assolata. Cinque colpi ravvicinati, uno al petto, due al linguine, uno all’arto superiore (impossibile chiamarlo braccio) ed uno, probabilmente fatale, alla testa. Oltre il suo corpo riesco a scorgere la testa decapitata di Dorcas, l’ultima vittima di quel mostro, prima che si gettasse su di me.
Come mi ero immaginato, avergli consegnato la pietra non è servito a placare la sua sete di sangue. Ha continuato la sua danza di morte, divorando carni ed estirpando urla di follia.
Afferrava le sue prede affondando i lunghi artigli nelle loro carni, volava molti metri sopra la nave e li lasciava sfracellarsi al suolo. Le teste esplodevano come zucche, disseminando materia grigia un po’ ovunque. Adesso grandi chiazze vermiglie nascondono la vernice bianca e azzurra della cabina di pilotaggio.
Ho ancora nelle orecchie le urla della gente che correva disperata sul ponte, i proiettili che sfrecciavano attorno alla creatura senza riuscire a colpirla e i tonfi sordi dei corpi caduti, nel buio della notte senza luna.
Ho recuperato la pietra dal nascondiglio in cui l’avevo deposta al momento della partenza, un anfratto tra un intreccio di tubature della sala macchine. Nel disperato tentativo di fermare quella strage, gliela ho gettata contro, sperando che sia la pietra che il mostro potessero scomparire nella notte, o magari finissero ingoiati dal mare. Ma la creatura era stata abile ad afferrare l’oggetto al volo. Sono certo che il suo volto demoniaco si è contorto in un ghigno di soddisfazione, mentre depositava la pietra dentro le sue carni, in una specie di tasca sottopelle.
Ho davvero sperato che se andasse, invece quel mostro perverso ha continuato le sue efferate pratiche di morte, uccidendo ad uno ad uno ogni componente dell’equipaggio, ogni passeggero, e lasciandomi di proposito come ultima vittima.
Il revolver ha ancora un proiettile in canna. L’ho chiamato Rose, come quella ragazza della Virginia che molti anni fa, regalandomi un sorriso, mi fece innamorare. Chissà dove era adesso, piccola Rose…
Devo fare un ultima cosa però…

Ho estratto la pietra dall’addome della bestia. Ho infilato le mani dentro il foro provocato dalla 38, strappando la carne quel tanto che bastava per estrarre l’oggetto. L’ho guardato un ultima volta, la liscia superficie che sembrava ingoiare anche la luce del sole, e le incisioni a prima vista senza senso. Poi ha descritto un arco oltre la balaustra, scomparendo negli abissi. Forse è proprio laggiù che dovrebbero rimanere nascoste certe cose…
Adesso basta scrivere. Fa troppo caldo…
La tenera Rose mi sta chiamando.
Vuole darmi un bacio, e non posso più farla aspettare…

FATUM POETUM & GM WILLO - 2007

sabato 12 settembre 2009

SALA D'ASPETTO



L’orologio sulla parete segna le nove e ventisette. Non è possibile, mi dico. Non può essere. Devono essere passati almeno dieci minuti dall’ultima volta che ho alzato la testa. Le batterie, certo…
Guardo il display del cellulare. Le nove e venticinque. Strano. Ma almeno di quello mi posso fidare. Mi rimetto a leggere la storia. Una strana storia. La storia di un orologio da parete rotto e di una ragazza che legge una storia.
Guardo nuovamente il display. Le nove e venticinque. Non può essere, e mi scappa un gemito. Sono pazza, mi dico. Lasciamo fare… continuiamo a leggere.
La storia va avanti. La ragazza legge ma il tempo sembra essersi fermato. È proprio una strana storia.
Poso il libro sul tavolo. La sala d’aspetto è vuota. Ci sono solo io. Il dottore è occupato e mi sembrano ore ormai. Ma il cellulare segna ancora le nove e venticinque.
Mi alzo dalla sedia, una sedia di formica scomodissima. Passeggio per la stanza, una stanza piccola e squallida. Le pareti sono spoglie. C’è solo quell’orologio che per di più è rotto.
Ascolto i tacchi delle mie scarpe rintoccare. Tic, tac, tic, tac. Forse stanno aiutando i secondi a scorrere. Forse li stanno convincendo a tornare a fare il loro lavoro. Tic, tac, tic, tac. Forza, su. Muovetevi!
Il display segna ancora le nove e venticinque. Sono pazza…
Mi avvicino alla porta dello studio. Insieme al dottore deve esserci qualcuno ma non odo alcuna voce. Potrei bussare, ma decido di aspettare ancora un po’. Un paio di minuti… già, ma se non scorrono che cosa aspetto?
Potrei andarmene. Imboccare il corridoio per il quale sono arrivata, prendere l’ascensore e tornare in strada, dove il tempo di sicuro scorre normalmente. Ma ho bisogno di quelle ricette. Non posso andarmene senza.
Spengo il cellulare e lo riaccendo. Forse è colpa di un contatto. Quando si accende emette un ridicolo gingle, poi s’illumina come una albero di natale. Le nove e venticinque. Vacca boia!
Basta. Mi dirigo verso la porta e busso. Non succede niente. A questo punto mi prende il panico. Ecco, lo sento arrivare, è uno di quegli attacchi, i soliti maledetti attacchi. Devo aprire la porta, devo avere quelle ricette…
La porta si apre.
«Buongiorno signora Lastelle. È tanto che aspetta?»

Aeribella Lastelle - 2008

venerdì 11 settembre 2009

L'ORRIDO PERSECUTORE



Il suo nome è Victoria. Piccola, mora, trucco vistoso, look darkeggiante, ma con un’aria da Lolita. Giriamo a vuoto per le vie del centro, con l’autoradio che pompa un misto di techno e acid. Sono le cinque del mattino e presto la città vivrà. Per allora tutto sarà finito.
«Me lo fai un pompino?» le chiedo.
Lei è completamente andata. Un mix esaltante di exstasy e anfe, condito con un paio di mojiti fatti con cura, l’ha trasformata in un’ameba vestita di nero. Mi sorride con denti candidi. Ci siamo conosciuti due ore fa, e un pompino mi sembra un ottimo pretesto per chiudere la serata in bellezza.
Non mi risponde. Si avventa sulla lampo dei miei jeans ed io faccio appena in tempo a scartare di lato, evitando un cassonetto dell’immondizia. Mentre riprendo il controllo della Golf, la sento sogghignare divertita. La troietta non sa cosa le aspetta.
Comunque tutto sta andando come previsto. Lei me lo succhia, io faccio fatica a rimanere duro e nel frattempo lasciamo la città. I semafori sono tutti spenti. Cinque minuti dopo sono già sulla statale che sale verso le colline. Victoria mi si è addormentata sull’uccello. Poco male. L’importante è che si stia distraendo.
Imbocco lo sterrato che si addentra nel bosco. Lo conosco bene. Ci sono stato nel pomeriggio per fare i preparativi. Sento Victoria che si risveglia. Non protesta, forse si sente in colpa, così si rimette subito a lavoro. Non è male, anche se lenta nei riflessi. Ma c’è da capirla, con tutta la roba che le circola in corpo…
Finalmente la sento irrigidirsi. Nonostante la musica a palla, i sobbalzi della Golf dovuti alla strada non lastricata sono fin troppo riconoscibili. Si alza e si accorge subito che c’è qualcosa che non và. Piccola, dolcissima, con quel musino da bambina, un filo di bava che le penzola dal labbro, gli occhi lucidi come due laghi di notte. L’oscurità del bosco ci sovrasta. Io le rivolgo un sorriso rassicurante, ma sono pronto a scattare. Victoria non sa come reagire, non si capacita. Mugugna un debole: «Ma dove cazzo siamo?», poi le afferro la nuca e le sbatacchio la testa sul cruscotto. Una, due, tre volte. Il cruscotto è di plastica dura; non dovrebbe farle molto male. La rilascio indietro e lei crolla sul sedile con una chiazza rossastra dipinta sulla fronte. Spengo la musica. Non ce n’è più bisogno.
Raggiungo finalmente la radura, una piazzola di erbacce e arbusti circondata da faggi e querce. I fari dell’auto trafiggono le tenebre solide di una notte senza luna, ma devo spegnerli e fidarmi del mio istinto per portare avanti il rituale. Lui non ama la luce…
I segni sono dipinti con del gesso bianco e rosso. Li vedo riverberare al tenue bagliore delle stelle. Esco dalla Golf e vado ad aprire la portiera del passeggero. Il gracile corpo della bimba, ancora privo di sensi, si rovescia fuori dall’abitacolo. La sento respirare, mugolare. È viva. Menomale.
La sollevo facilmente, sarà si e no cinquanta chili. Dolcemente la distendo sull’erba, all’interno del cerchio rosso. Le discosto una ciocca di capelli che le è ricaduta sul volto, quel volto da Lolita marcato da troppo makeup. La chiazza rossa sulla fronte si distingue appena nelle tenebre del bosco. Lui non ci farà caso.
Io mi posiziono dentro l’altro cerchio, quello di protezione. Non posso perdere altro tempo perché presto albeggerà, e allora Lui si rifiuterà di venire. Trovo la concentrazione necessaria per rievocare le parole, quelle imparate a memoria la sera prima davanti al mio laptop. Litanie ancestrali trasformate in catene di impulsi binari. Poco importa alla fine. Sono finiti i tempi dei tomi antichi e delle pergamene. Il messaggio dei Grandi Antichi viaggia rapido nei sotterranei della rete.
Io, solitario nel grembo del bosco, sotto una volta di stelle che mi guardano come le orbite idiote di creature aliene, scandisco ogni sillaba della canzone. Il corpo di Victoria diventa il dono, il pretesto, il mezzo. Eccolo che arriva. Un verme deforme, lungo quasi dodici metri, dotato di oscene ali di pipistrello. Un’ombra nel cielo stellato che si dimena gonfiandosi, e vibrando discende. Si ferma proprio sopra la ragazza, librandosi nella sua folle brama di essere reale, creatura impossibile che diventa la testimonianza di un assurdo disegno. La trama del Caos Strisciante.
«Eccomi, uomo. Quale compito mi spetta?» la sua voce dilania il vero. È dura, senziente, asciutta, insopportabile. Io faccio fatica rimanere in piedi, ma l’evocazione è ormai compiuta. Devo andare avanti. Chiedere il favore.
Non conosco il bastardo che è riuscito ad accedere al mio deck. Forse è solo un ragazzino un po’ curioso. Potrebbe trovarsi dall’altra parte del mondo, ma quello non è assolutamente un problema per il mio amico vermiforme. Non conosco neanche il suo nome, e sono sicuro che l’IP che sono riuscito a intercettare sia falso. Ma anche questo non è un problema. All’orrido persecutore basta un riferimento, ed il suo nickname è più che sufficiente. L’intuizione di una creatura come quella trascende il pensiero umano. Egli esiste per perseguire, dentro incubi tutt’altro che onirici.
Gli rivelo l’identità del suo obbiettivo. Lui come risposta emette un orribile mugolio. Poi si avventa sulla ragazza. Il suo corpo gibboso di verme si attorciglia alle sue gracili membra. Victoria in quell’istante si sveglia, sbarra gli occhi e precipita in una voragine di follia. Urla, ma il suo urlo le muore a metà. Il verme sbatte le sue ali di pipistrello, e in un attimo è risucchiato nel cielo scuro, sagoma indistinta tra le stelle.
Rimango da solo nel silenzio della foresta. Continuo a tremare per lo sforzo mentale richiesto dall’evocazione. Lentamente recupero forza e autocontrollo. Intanto ad est il cielo incomincia a rischiararsi. La notte è finita, insieme all’incubo della piccola Victoria. Tra poco incomincerà quello dell’hacker irriverente, che ha visto cose che non doveva vedere. Puoi anche conoscere i tasti giusti, ma prima di premerli è bene che tu sappia che cosa stai facendo.
Altrimenti gli incubi verranno. E come se verranno…

Jonathan Macini - 2008

giovedì 10 settembre 2009

UNA PARTITA A BILIARDO

una-partita-a-biliardo

Chiusi gli occhi e le luci si accesero.
Mi trovavo in una sala da biliardo, dieci, dodici tavoli disposti in fila, pareti ricoperte di stecche, gessetti blu, lampade verdi sopra i teli, mattonelle marroni, sedie di formica, finestre su una strada buia. Era quella la sala d’attesa?
La stanza era pressoché deserta. C’era solo un giocatore, defilato al tavolo più distante; il numero dodici. Mi avvicinai col pensiero e un attimo dopo ero seduto di fronte a lui. Mirava la numero otto in una buca d’angolo. Attesi il colpo. Il silenzio era assordante. Toc! Con precisione la palla nera percorse tutto il tavolo depositandosi con dolcezza nella buca.
«Bel colpo!» mi venne di dire.
L’uomo, un tipo anonimo di mezz’età, vestito con un paio di jeans e una giacca scura, mi rivolse un sorriso.
«Te l’aspettavi, vero?» Aveva una voce roca, graffiata dal tabacco e dall’alcol.
«Cosa?»
«Che andasse a finire così. Buca d’angolo…»
«Che vuoi dire?» Ero confuso e non lo nascondevo.
«La tua vita. La numero otto, in buca d’angolo.»
«Vuoi dire che era lei?»
«Beh, hai rimbalzato un bel po’ prima di finire in buca. Alla fine ci finiscono tutte…»
«Ehi, ferma un attimo. Mi vuoi dire che siamo di là? Che alla fine il cancro l’ha avuta vinta?»
«Beh, questo lo dici tu. Forse può bastarti…» Si era messo a lavorare la stecca con il gessetto, ma continuava a guardarmi, da oltre la frangia che gli ricadeva sugli occhi.
«Ed io che credevo che avrei trovato delle risposte…»
«Ehi uomo, non ti preoccupare. Non sei il primo che pensa di trovare delle risposte da questa parte. Qui si gioca solo a biliardo. Ti va di fare una partita?»
Che altro potevo fare. Avevo l’eternità davanti. Mi alzai e afferrai una stecca.
«A cosa giochiamo?»
«A Destino. Lo conosci?»
«No.»
«La vedi la numero quindici, laggiù?»
«Si…»
«Tua figlia Giulia. Se la butti in buca è salva, altrimenti… dopo tocca a me.»
Mi regalò un sorriso di cui avrei fatto volentieri a meno.
E così mi ero ritrovato a giocare al Destino insieme al braccio destro del Caso. Non potevo farcela, era una partita impari, uno scherzo di cattivo gusto. Se solo…
E appena lo pensai, apparve. Un bicchiere di scotch sul bordo del tavolo da gioco. Ecco quello che mi ci voleva… Lo buttai giù d’un fiato e preparai il colpo.
«Ordina pure quello che vuoi. Va tutto sul mio conto…» disse il tipo col ciuffo, continuando a sorridere.
Non lo guardai. Non guardai nemmeno la palla, o la stecca, o la buca. Chiamai il colpo pensando alla piccola Giulia, quando aveva solo tre anni, e si buttava dallo scivolo a testa in giù, e le dicevo di stare attenta, ma poi lei mi sorrideva e non potevo resisterle. La biglia battente descrisse una retta attraverso il tavolo verde, sfiorò appena la numero quindici vicina alla buca laterale, la palla bianca e bordeaux ruzzolò con sicurezza dentro la cavità. La piccola Giulia era salva, almeno per il momento…
«Bel colpo» ammise il mio compagno di gioco.
«Cosa mi aspetta, adesso?»
«Ancora domande? Te l’ho già detto, qui non troverai risposte. In verità ti dico che di risposte non ci sono, da nessuna parte. Né nella sala dei biliardi, né giù al bar, né tanto meno in strada…»
In quel momento sentii transitare un’auto, vidi le luci degli abbaglianti scorrere sul palazzo di fronte, mi avvicinai alla finestra e guardai giù. Ma l’auto era già passata. Fuori pioveva, e i lampioni illuminavano le pozze. Il silenzio era straziante.
«Beh, dici che non esistono risposte, ma tu sei già una risposta. Giochi a biliardo con le vite degli uomini, è un fatto no?»
«Scusami se mi ripeto, ma questo lo dici sempre tu. Ci credi solo perché te l’ho detto? La numero sei, quella verde. Lo sai chi è?»
Poteva essere un sogno? Non avevo mai sentito che il cancro ti prendesse così, di punto in bianco, sul divano mentre guardi la TV spenta e cerchi di farti una ragione di quello che ti sta per succedere. La morte, l’amore, il tempo, il senso di tutto… Mi aggrappai all’idea del sogno e continuai a giocare.
«Che diavolo vuoi da me?» urlai. Ma in quell’intercapedine onirica, l’urlo diventò un sussurro.
«La sei è tuo padre. Proprio lui, il vecchio ubriacone, quello che non è neanche venuto a vedere la sua nipotina, quello che non si è fatto sentire per più di dieci anni, quello che metteva mano alla cintura volentieri, quando ne combinavi una grossa… La numero sei, dai su… Non è difficile… Un colpo secco ed è salvo. Ah, dimenticavo, puoi sempre decidere di passare il turno…»
Il suo sorriso era diventato un ghigno. Sul bordo del tavolo apparve un secondo bicchiere. Lo afferrai con decisione, lo alzai e proposi un brindisi. “A te, padre… ti ho già perdonato così tante volte che non me ne frega più niente, ormai…”
Già, proprio un colpo secco ci voleva, e la sei fu fuori dal gioco. Ne rimanevano troppe, però…
«Quanto deve andare avanti questa storia?»
«Non ti stai divertendo?»
«No!»
«Io invece si. Quella gialla, la uno. Quella è tua moglie. Vogliamo provare a buttarla dentro?»
Per me poteva bastare. Cercai l’interruttore dei sogni, avete presente? È un po’ come allungare una mano nel buio della cantina, e mentre senti il tocco delle ragnatele ti auguri che il ragno non s’incazzi e ti venga a fare un salutino. Ma niente interruttore, questa volta. Cavoli, forse ero morto per davvero. Maledetto…
Il colpo era difficile stavolta. La uno era coperta da altre due palle. Avrei potuto mirare alla sette, per farla carambolare sulla gialla. Un colpo estremamente complesso, ed io non sono mai stato un granché come giocatore. L’alternativa era mettere fuori gioco il mio avversario, nascondendogli la biglia dietro altre palle. Ma potevo fidarmi di lui? Chissà di cosa era capace…
«Puoi passare, se vuoi…» incalzò il braccio destro del Caso. Non gli badai e preparai il colpo.
Pensai al giorno in cui la conobbi, alle cretinate che feci per farmi notare, a come mi guardava storta, ridendo al tempo stesso, alla vacanza in Grecia e all’amore sugli scogli, ai litigi e alle passioni, all’ultimo sforzo, dopo ore di travaglio, che segnò la nascita di nostra figlia, e a tutte le volte che avevo bisogno di una carezza e c’era lei. Pensai a tutto questo chiudendo gli occhi, poi li riaprii e colpii, sicuro, con forza, dritto verso la biglia bordeaux. Stoc… toc… toc… la uno in buca d’angolo… salva… e la bianca in buca laterale…»
«Peccato…» sospirò il mio avversario.
Riaprii gli occhi e le luci si spensero. La TV era morta ma il led in alto mi diceva che erano quasi le due. Al piano di sopra il miei due gioielli respiravano piano, e sognavano di volare. O almeno me lo auguravo…
Una fitta allo stomaco. La solita fitta, quella che mi tormenta ormai da settimane. Domani iniziamo la chemio, poi si vedrà.
Volete sapere cosa penso?
Non penso niente. Le Grandi Risposte non m’interessano. Continuerò a pormi domande fino alla fine, e cercherò di rispondermi in sincerità, anche se dovrò contraddirmi. Lo facciamo tutti, no? È cosi che passiamo ogni singolo istante delle nostre esistenze.
Ma ho smesso di credere al bianco e al nero, a dio e al diavolo, al male e al bene. In questo momento, solo di una cosa sono certo: se vuoi morire tranquillo, impara a tirare di stecca!

GM Willo - 2009

mercoledì 9 settembre 2009

L'AMULETO



L’amuleto.
Si, l’amuleto, proprio quello. L’ho gettato via. L’ho dato in pasto ai pesci… dannati pesci e creature marine. Anche voi cospirate insieme a lui.
Non è servito a niente. L’incubo è tornato, più orribile che mai. Ancora una volta l’altare. Ancora una volta quella maschera spaventosa che si avvicina col pugnale in mano. La lama, lunga e sottile, cosparsa di iscrizioni arcane. Io a ridosso della fredda pietra. Il mio corpo nudo, i miei muscoli tesi allo stremo, ma incapaci comunque di muoversi. La lama che si avvicina. Il ghigno da sotto la maschera. Non riesco a svegliarmi quando affonda nel ventre. Non provo dolore. Osservo il mio carnefice che con movimenti precisi incomincia a estrarre i miei organi. Il fegato, il pancreas, il cuore. Pulsa ancora nelle sue mani. Io rimango sveglio, in preda ad un orrore indescrivibile. Poi lui si sporge verso di me, sembra intenzionato a togliersi la maschera, ma un attimo prima di rivelare il suo volto io mi sveglio.
L’amuleto mi è arrivato circa quindici giorni fa per posta. Il mio interesse per gli oggetti antichi risale al periodo universitario. Interrotti gli studi di antropologia, più per pigrizia che per altro, ho incominciato a interessarmi di scienze occulte e pratiche esoteriche. All’inizio ero spinto da semplice curiosità; culti segreti, oggetti magici, maledizioni arcane. Ero convinto che il mio innato scetticismo fosse la migliore difesa contro qualsiasi anatema. Ma mi sbagliavo.
Com’è che diceva quel vecchio film? “Ho visto cose che…” ebbene, è proprio così! Ho visto cose che farebbero contorcere le budella ai mangiatori di fuoco. Basta avere gli indirizzi giusti e le password per accedervi. Le rete sotterranea è piena di schifezze di questo tipo. Con poco più di duemila euro rimedi un ragazzino da sacrificare. Non sto parlando di rapimenti, ma di bambini che si vendono per dare da mangiare alla loro famiglia. Roba da brividi!
L’amuleto arrivava dal Mar Rosso. Associato ad un culto antichissimo di Ebla, risalente al periodo di massima fioritura della città (2400 – 2250 AC), veniva adoperato dai sacerdoti per prepararsi a celebrare importanti rituali. I capi-culto mettevano alla prova la purezza del loro spirito entrando in contatto con il loro Io-Supremo. Baggianate…
Si, è così che ho pensato quando ho fatto il trasferimento di millequattrocentotrentanove euro sul conto di quell’arabo, tale Aziz Uruk. L’oggetto mi piaceva. Faceva un figurone in mezzo alla mia collezione, un pretesto fantastico per attirare nel mio appartamento qualche curiosa collegiale. Ma non era solo questo il motivo del mio interesse per l’amuleto. Sono anni che studio i culti protosiriani, akkadici ed aramaici, misteri insondabili per gli storici e i paleontologi. Bisogna spingersi oltre, magari con l’aiuto della fantasia, o della follia, direbbe qualcuno.
La storia è, come ogni altra scienza, interpretazione. Bisogna saperla leggere tra le righe, e se si vuole disseppellire le cose davvero importanti, non si deve aver paura di passare per degli sciocchi. Che ne sappiamo davvero del nostro passato. A scuola fin da bambini ci inculcano postille stantie, schemi disegnati a tavolino, parvenze di teorie. Cresciamo con la convinzione di possedere la conoscenza delle nostre origini. Beh, ve lo dico adesso, e non riuscirete a trovarmi più lucido di così… ci stanno raccontando un mucchio di baggianate. Si, baggianate. Tutto quanto è una megabaggianata.
Mi accendo una sigaretta e butto giù un po’ di tequila, tanto per farmi coraggio. Più scrivo e più mi viene da scrivere. L’amuleto, vi dicevo….
Un coccio romboidale che ricordava una piastrella. Forse una tegola. Incredibile che si sia conservato così. La missione italiana che nel 1964 si recò ad Ebla ritrovò molte suppellettili in perfetto stato. Deve essere stata insieme a queste. Maledetti italiani, quando ci si mettono sanno il fatto loro!
In più di quaranta anni il coccio deve essere passato da diverse mani. Chissà come se lo è procurato Aziz… Non bisogna mai fidarsi degli arabi. Le mille e una notte, ve le ricordate? La loro cultura si basa tutta su quelle parabole. Inganni, trabocchetti, mistificazioni. Sono degli artisti quando si tratta di mentire.
Sapevo del rituale, ma non gli avevo dato alcun peso. Non ero interessato a documentare le qualità magiche dell’oggetto. Non ci credevo, semplice. Ma ricordavo di aver letto che i sacerdoti usavo dormire sopra la pietra, la notte prima della celebrazione del rito. Era questo il modo per attingere il potere dall’oggetto.
Quella sera avevo bevuto. Non posso dire con certezza se fossi ubriaco, perché ricordo bene tutto quello che successe, ma di sicuro non avevo il pieno controllo delle mie facoltà. Altrimenti non avrei mai fatto quello che ho fatto.
La tipa si chiamava Linda, ed era davvero super. Appena vent’anni, ultimo anno, tanta ambizione negli occhi ed un corpo da urlo. Le dissi dell’amuleto e lei sembrò quasi eccitarsi. “Quando me lo fai vedere?” mi disse. Sapete bene che a una richiesta del genere non è facile resistere…
La portai su la sera stessa. Servii due gin and tonic che erano due corazzate sulla nuca. Ne seguirono altri tre. Lei faceva fatica a stare in piedi, mentre si rigirava tra le mani il coccio. Lo strinse tra le braccia e incominciò a ballare. Avevo messo su il secondo dei St Germain, Tourist. Che bello! Iniziò a spogliarsi. Piccola Linda, com’eri bella!!! Maledizione…
Iniziammo a farlo sul divano. La pietra giaceva sul tavolino da tè. Ogni tanto vi posavo gli occhi. Ho questa immagine nella testa e non riesco a liberarmene. Linda in ginocchio davanti a me intenta a trascinarmi in isole di piacere mai visitate prima, e l’amuleto dietro di lei che improvvisamente emana un bagliore, una luce arancione che mette i brividi. Ancora non so se me lo sono sognato oppure no, ma l’immagine è vivida, assolutamente reale.
Lei mi disse: “Andiamo in camera”. Io la seguii. Aveva raccolto l’amuleto dal tavolino. “Sei pronto ad incontrare il tuo Io-Supremo?” mi sussurrò, adagiandosi sul letto. Poi posò il coccio sotto il letto. Qualcosa dentro di me urlò che era tutto sbagliato, ma in quel momento nessuna voce interiore poteva dissuadermi dal fare quello che mi ero preposto di fare.
Scopammo fino a che ci resse il mondo, poi abbracciammo insieme l’oblio. La mattina dopo mi ritrovai solo nel letto. Lei se n’era andata. I piaceri della notte si erano dissolti insieme ai fumi dell’alcol. Il sogno era comparso per la prima volta, trasformandomi dentro.
Nel pomeriggio di quello stesso giorno fu rinvenuto il corpo annegato di una ragazza. Linda si era tagliata i polsi e poi si era gettata dal ponte più alto. Alla luce dei ricordi della notte, non mi sorprese quel gesto.
Sono passati sette giorni da allora. Il sogno ritorna ogni notte. La pietra è in fondo al canale ed io incomincio ad agognare la fine della piccola Linda. Una paura ghermisce le mie membra, il mio stomaco, i miei intestini. Che l’uomo con la maschera infine mi si riveli. Perché so chi si nasconde dietro a quel ghigno…
… il mio Io-Supremo.

Jonathan Macini