martedì 26 marzo 2013

UNA QUESTIONE INSIGNIFICANTE


di GM Willo

Avevamo fatto i nostri progetti, come ogni coppia passati i trenta. Emanuela voleva due figli, io mi sarei fermato al primo, ma non dissi niente perché le cose dovevano ancora mettersi in moto e non c’era alcun bisogno di essere troppo previdenti. Prima di tutto il matrimonio, non perché credevamo nella sacralità del voto, ma per la comune idea di rassicurare i figli, come se un pezzo di carta fosse sufficiente… Adesso, dopo tutto quello che è successo, trovo buffa quella nostra complicità, quella voglia frenetica di disegnare il nostro mondo sin nei minimi particolari. Eppure ci credevo, come credevo alle cose normali che mi accadevano tutti i giorni, la mia rassicurante quotidianità fatta di cappuccini e cornetti, di chiacchiere con gli amici del bar e di giornali lasciati sugli sportelli dei freezer per i gelati. Credevo alla puntualità con cui mi recavo in ufficio alla mattina, alle tiepide battute insieme ai colleghi, per insaporire i rapporti, alle discussioni sportive durante la pausa pranzo e ai regolari messaggi di lei, che mi arrivavano sul cellulare per ricordarmi quanto ero fortunato di conoscere una persona dolce e sensibile come Emanuela. Credevo a tutto questo, come un miliardo di uomini come me. Ma il dolore è capace di aprire porte che non avresti mai pensato di avere. Esistono angoli remoti dentro di noi, invasi da ragni ed altri insetti, in cui la luce è bandita. I più vivono una vita sospesa, galleggiando vicino ai piani bassi. Pochi si elevano oltre le nubi, per lasciarsi intrattenere dagli abbagli del sole. Solo chi ha questa fortuna vive con il rischio di cadere, e solo una caduta dall’alto può farti precipitare nelle profondità in cui dimorano gli aracnidi… Ho visto quei luoghi dentro di me, ho aperto le porte proibite, ho anelato di abbandonare la mia anima agli eccessi e lasciarmi cullare dalla follia. Ho pensato che la colpa fosse sua, ma in verità non esistono colpe. Siamo piccoli pedoni su una scacchiera sconfinata, dentro un gioco ad infinite dimensioni.
Per il viaggio di nozze scegliemmo la Turchia. Era aprile ed entrambi preferivamo evitare le temperature proibitive dell’estate, perciò l’idea di non perdere neanche uno scorcio della splendida Istanbul, scattare qualche migliaio di foto e godere spensieratamente l’atmosfera della città dei due continenti ci dissuase dall’aspettare le ferie di luglio. Fu in un piccolo mercatino della metropoli turca che acquistai l’oggetto che cambiò completamente la mia vita e la percezione del mondo in cui viviamo. Una scatola, una semplice scatola quadrata ricavata da un blocco di marmo di una ventina di centimetri di lato, un portagioelli, niente più, o almeno questo sembrava. Non aveva decorazioni ma le venature del marmo creavano dei disegni naturali davvero stupefacenti, che in principio non riuscii ad identificare. Ve n’era soprattutto uno sul coperchio che ricordava la forma di un insetto, o di un crostaceo… Tutto sommato l’oggetto non era molto bello, ed infatti lo intravidi in un angolo della bancherella, semicoperto dalle altre cianfrusaglie, ma per qualche oscura ragione ne fui affascinato. Fin dal principio Emanuela, come era suo solito fare, manifestò accanitamente il suo disgusto e finimmo per litigare perché, per quanto assurda fosse la questione, io non avevo alcuna intenzione di lasciare il mercato senza quella scatola. Le promisi che l’avrei portata in ufficio per usarla come portaoggetti e finalmente raggiungemmo un accordo. Solo adesso mi spiego quel suo incontenibile senso di rigetto nei confronti del mio curioso acquisto, come se un senso assopito in lei si fosse ridestato d’improvviso.
Tornati in Italia portai come promesso la scatola in ufficio ma evitai, per qualche oscuro motivo, di farla vedere ai miei colleghi. La usai come portaoggetti mettendoci dentro delle biro, alcune graffette e una chiavetta usb, ma la nascosi dentro l’ultimo cassetto della scrivania che era sempre vuoto. Ogni tanto mi prendeva voglia di guardarla, di rigirarmela tra le mani, in un gioco tutto mio, cercando di interpretare i disegni delle sue venature. A volte vi vedevo il mare, altre volte la sagoma di una città in rovina, altre ancora gli appendici contorti di strane creature insettoidi. Non so come mi sovvenne quell’idea, forse presa in prestito dalle mie letture giovanili, ma mi tornò in mente assiduamente durante il periodo antecedente i viaggi.
Tra me ed Emanuela le cose andavano come da programma. Lei aveva smesso di usare la pillola, o almeno così diceva, e si era presa un giorno libero in più alla settimana per sistemare la nuova casa, un appartamento poco fuori dal centro che avevamo affittato insieme un paio di settimane prima del matrimonio, e che aveva una camera in più per il futuro, o i futuri, membri della nostra famigliola. La sera, rientrando dall’ufficio, la vedevo serena ed appagata. Mangiavamo veloci una pasta in cucina, io parlavo distrattamente del mio lavoro, lei dei suoi amici su facebook, poi mi andavo a fare una doccia perché conoscevo il rituale: dovevamo provare ogni giorno durante il periodo più fertile, perciò facevamo l’amore, sempre più in maniera meccanica, ed infine ci lasciavamo cullare spensieratamente dallo schermo della nuova TV al plasma appesa davanti al nostro letto. Tutto sommato la prevedibilità di quella vita non mi disturbava. Accettavo tutto con una sorridente apatia, ma ogni giorno che passava mi scoprivo a desiderare con crescente fervore quel momento da solo in ufficio, durante la pausa pranzo delle una. I miei colleghi uscivano in fretta dai loro loculi per guadagnare la sala mensa o il bar di fronte, ma io rimanevo ancora cinque minuti, fino a quando gli scalpiccii degli impiegati si perdevano nella distanza lasciandomi al mio momento. Allora aprivo lentamente l’ultimo cassetto della scrivania, afferravo la scatola di marmo venata e mi perdevo nei suoi disegni, accarezzandola delicatamente con le punta delle mie dita. Quel rituale aveva il medesimo effetto dell’autoipnosi. Durante il primo dei miei molti viaggi scoprii l’inganno del tempo. Il mio sguardo seguiva una nuova venatura sul coperchio della scatola quando ad un tratto avvertii un leggero calore sul palmo della mano che reggeva l’oggetto. Il disegno cambiò impercettibilmente assomigliando vagamente a una di quelle immagini che si trovano nei libri di astronomia; un intrico di astri, una nebulosa, un angolo dello spazio infinito… La mia mano, pilotata da uno strano impulso, sollevò delicatamente il coperchio. All’interno non mi aspettavo più di trovare gli oggetti che vi avevo riposti, e non fui deluso. Vi era prima oscurità, rotta ad intermittenza da luci lontane. In qualche modo era come se guardassi attraverso un dispositivo di alta tecnologia, una sorta di tavoletta pc capace di proiettare immagini tridimensionali. Viaggiai per molte ore in uno spazio remoto, sorvolando pianeti deserti, a volte disseminati da strane costruzioni, di sicuro non umane. Vidi stelle esplodere e nascere dalle loro ceneri, e scie di luce risucchiate da buchi neri, in una danza cosmica scandita dal ritmo di flauti lontani. Una nuova consapevolezza iniziò a crescere in me, ridestata dal sogno oppure innescata direttamente dal potere della scatola. Non ricordo quando la mia mano ripose il coperchio al suo posto, interrompendo quel bizzarro viaggio nelle profondità del cosmo, ma è indelebile nella mia mente l’immagine del riquadro dell’orologio digitale sulla scrivania che segnava le 13 e 06. Appena un minuto era passato da quando avevo estratto la scatola dal cassetto, eppure erano sembrate ore…
I viaggi si ripeterono regolarmente ogni giorno d’ufficio alla solita ora. Durante il fine settimana pensavo alla scatola senza mai esserne disturbato. Mi sentivo confortato da una strana accettazione ed attendevo l’ora di pranzo del lunedì successivo indossando serenamente le mie vesti di marito, collega e uomo del terzo millennio. Quei viaggi stavano regalandomi un conforto nuovo, sussurrandomi l’inutilità di tutto, l’insignificante danza dell’umanità al cospetto dei Grandi Antichi. Lentamente, viaggio dopo viaggio, il drappo veniva scostato, ed io ero finalmente in grado di capire…
Arrivò giugno, Emanuela ed io eravamo sposati da quasi tre mesi e le cose all’apparenza procedevano come da copione. Anche l’ultimo test di gravidanza aveva dato esito negativo ma lei continuava ad essere ottimista. Io mostravo la solita complicità ma dentro sentivo ben poco. La nascita di un figlio mi appariva tanto insignificante quanto la mia vita o la vita di ogni altro uomo. La conoscenza portatami dai viaggi della scatola mi aveva elargito la pace che molti rincorrono senza successo con le discipline più in voga del momento; yoga, meditazione, religioni orientali e via così… Una pace diversa, certo, ma altrettanto liberatoria. Una pace che non mi sarei mai aspettato potesse finire da un momento all’altro per un qualcosa di inaspettato riguardante gli affari del mio piccolo ed insulso mondo.
Emanuela mi tradiva con un collega di lavoro. Lo faceva già prima del matrimonio in maniera regolare, ogni giovedì sera dopo la palestra. Invece di starci un’ora e mezza rimaneva solo per il corso di bodypump, appena quarantacinque minuti, poi saltava sul suo scooter per raggiungere l’appartamento del tale, un essere insignificante che lei usava esclusivamente per distrarsi. La scoprii passando per caso sotto il suo palazzo, un giovedì sera che avevo fatto tardi al lavoro e che, per strane coincidenze, mi ero deciso a percorrere una strada diversa da quella abituale. La vidi scendere dal motorino, levarsi il casco e con estrema naturalezza suonare a un citofono e scomparire dentro un portone. Quel bizzarro comportamento poteva anche avere altre spiegazioni, eppure qualcosa dentro di me mi convinse fin da subito che le cose stavano proprio sembravano. Non mi ci volle molto per scoprire chi era il tipo e che la loro relazione andava avanti da un bel po’. In principio la cosa mi sfiorò appena, rapito com’ero dai viaggi e dalla mia nuova consapevolezza, eppure un tarlo s’insinuò sottopelle, come un nervo infiammato alla radice di un dente, che in silenzio cresce d’intensità. Cercavo di convincermi che tutta quella storia, come d’altronde il resto, non avesse la benché minima importanza, ciononostante quel sordo pensiero di lei tra le braccia di lui tornò assiduamente a tormentarmi finanche nei miei momenti di quiete più intensa, prima, dopo e durante i miei incredibili viaggi. Questo tumulto emozionale avveniva nella completa discrezione, mentre continuavo a fare la mia parte dentro l’amara commedia che era diventata la mia vita. Lei non si accorse mai che io sapevo, rapita da tutte le sue distrazioni, le amiche, il lavoro, la palestra, lo shopping e i social network.
Sperai che col tempo la cosa si acquietasse, ma sapevo anche che se non fossi intervenuto niente della routine di Emanuela sarebbe mai cambiato e lei avrebbe continuato a fare visita al suo amico puntualmente ogni giovedì sera, salvo imprevisti. Avrei potuto confrontare lui, mai non sarei riuscito sicuramente ad estirpare il problema alla radice. Dovevo pensare a qualcosa, ma la mia mente faceva fatica a formulare un qualsiasi progetto al di fuori del mio teatrino quotidiano. La pace che avevo trovato grazie ai viaggi era stata contaminata da uno stupido impulso di gelosia, e non riuscivo a fare a meno di odiarmi per questo.
I viaggi intanto mi portavano sempre più lontano. Ebbi modo di conoscere razze superiori, creature appartenenti a nuove dimensioni, abitatori di pianeti lontani, che trovavo, malgrado le loro forme dure ed asimmetriche, meravigliosamente armonici. Una sera mi chiesi se quelle incredibili creature potevano risolvere il mio piccolo ed insignificante problema. Certo, forse la risposta stava proprio nella mia scatola…
Era la sera del solstizio d’estate. Emanuela dormiva profondamente accanto a me. La notte era insolitamente calda e il ventilatore ronzava con insistenza al bordo del letto, sollevando impercettibilmente la sua vestaglia di raso. Mi alzai in silenzio e raggiunsi il soggiorno dove avevo poggiato la borsa da lavoro nella quale usavo riporre il mio portatile. Quella sera invece avevo lasciato il computer in ufficio e al suo posto avevo riposto il mio prezioso oggetto…
Come molte altre cose che adesso ho la fortuna di conoscere, anche se non so bene come, seppi fin da subito cosa dovevo fare. Tornai in camera con la scatola che già aveva incominciato a scaldarsi tra le mie mani, come usava fare all’inizio di ogni viaggio. La poggiai sul letto, dalla mia parte, e senza esitare un attimo ne sollevai il coperchio. Dentro vi era l’oscurità del cosmo, ma in un angolo era percepibile l’avvicinarsi di una supernova. Lasciai la scatola aperta e uscii dalla camera, lanciando un’ultima occhiata dall’altro lato del letto, dove mia moglie ignara dormiva il suo ultimo sonno.
Conquistata l’uscita, non richiusi completamente la porta. Il desiderio di osservare il prodigio che stava per compiersi vinse sulla prudenza. Guardai dall’uscio l’oscurità che fuoriuscì da quel piccolo contenitore di marmo, un cono d’ombra distinguibile nel riverbero argenteo proiettato dalla luce della luna, che come un occhio alieno si affacciava dalla finestra. Dall’ombra emerse la cosa, meravigliosa nel suo lento strisciare, apparentemente grottesca eppure avvenente, per via della sua pelle d’ebano ricoperta di fasce muscolari. Fluttuando a pochi centimetri dalle lenzuola, piegandosi in modo quasi rituale sul corpo di Emanuela, la cosa estrasse, da una larga bocca munita di una moltitudine di piccoli denti aguzzi, una lingua massiccia e grondante, lunga abbastanza da poterla attorcigliare attorno alla gola della sua vittima. In quell’istante lei spalancò gli occhi, ma la follia le divorò il grido che aveva in gola. La cosa si mosse rapida verso la scatola, comprimendosi contro le sue pareti di appena venti centimetri e trascinandosi dietro la sua preda. Tutto si era svolto in un silenzio agghiacciante e pulito. Io rientrai dentro la camera respirando regolarmente, cercando di riprendermi da uno stato di semi-estasi. Chiudendo il coperchio della scatola riuscii a scorgere di sfuggita il paesaggio di un nuovo pianeta, e una figura agile e contorta che trascinava, dentro la cavità oscura di un cratere, una giovane donna in vestaglia da notte.
Riposi la scatola nella borsa, chiusi gli occhi e la pace tornò ad adagiarsi sul mio cuore.
“Una questione davvero insignificante…” pensai, prima di essere finalmente rapito da un sonno candido ed ovattato.

sabato 28 agosto 2010

VELDULE MISTE E LISO

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La città é una maschera grigia di nebbia. Copre ogni cosa col suo silenzio. Sembra dormire la città, sotto una soffice coltre. Ma la città non dorme mai, nemmeno alle quattro del mattino, in quelle nottate invernali lunghe e gelide. Neanche i gatti per i vicoli, i semafori lampeggiano d’arancio, un neon rotto e una sirena in lontananza. La città è immobile, ma respira ancora, come un vecchio randagio che chiede l’elemosina alla stazione, una serpe in agguato, un felino pronto a scattare. La città diventa pericolosa quando dorme. La abitano strane creature, animali della notte, girano nascosti nelle ombre, vergognandosi delle proprie deturpazioni, quelle dell’anima s’intende.
Poi ci sono quelli come me, che osservano, che aspettano, che fumano. Un’altra sigaretta, mentre l’orologio segna le quattro e diciannove. Il posacenere dell’auto ne è ricolmo. Guardo oltre la carreggiata, il vicolo buio, quello sul retro del ristorante cinese. Distinguo appena le sagome di Chon e del suo scagnozzo… grembiuli e cappelli da cuochi. Aspettano le provviste.
Il ragazzo è appena stato assunto alla pasticceria all’angolo della strada. Ha solamente diciassette anni e dovrebbe andare a scuola, ma sono tempi difficili, e poi il padre è disoccupato da quasi due anni. Passeggia ad ampie falcate sul marciapiede opposto. Lo vedo approssimarsi al vicolo, quello di Chon. Che sia lui il piatto giorno? Meglio non farsi sorprendere…
Scendo dall’auto e divento un’ombra sgusciante che attraversa la strada, raggiungo il lato opposto e mi fermo dietro una vettura parcheggiata a ridosso del vicolo. Nessuno mi nota, e ringrazio la nebbia, sempre lei, sorella e puttana di questa assurda città. La città dormiente. La città sognate. La città in balia del suo prossimo incubo.
Il ragazzo è risucchiato dentro al vicolo con una rapidità impressionante. Faccio fatica a distinguere i movimenti, ma risaltano all’occhio le lame dei coltelli da cucina. Un urlo strozzato e tutto è finito. A questo punto entro in gioco io.
«Quanti involtini pensi di farci, Chon?»
L’automatica è ben in vista e punta direttamente alla faccia gialla del cuoco.
Il chinaman sbraita nella sua lingua, lo scagnozzo mi guarda con il terrore negli occhi, poi afferra la vittima e la trascina dentro le oscurità del vicolo.
«Quanto vuoi, sbillo meldoso?»
«Beh, per te farò un buon prezzo. Tre testoni e tengo la bocca chiusa.»
«Bastaldo!» impreca il cuoco. Poi estrae dalla tasca un mazzetto di banconote e me ne allunga sei di quelle grandi.
«É un piacere fare affari con te, chinaman!»
«Non posso dile attlettanto…» sbuffa lui.
Sto quasi per andarmene quando mi viene in mente di chiedergli una cosa.
«Com’è che lo cucini?»
«Con veldule miste e liso…»
«Buono… lasciamene da parte un piatto, mi raccomando!»
Ve lo dicevo che erano tempi difficili.

domenica 1 agosto 2010

IL LUNGO INVERNO



di Jonathan Macini

Sorseggio distrattamente un tè al gelsomino addolcito con una punta di miele d'acacia, per ammazzare il freddo che mi si è infilato nelle ossa. Sono rientrato in casa da poco. È mattina presto ed in veranda ho dato di sfuggita un'occhiata al termometro, che anche oggi se ne rimarrà abbondantemente sotto lo zero. L'inverno non ne vuole sapere di finire. L'inverno al nord è troppo lungo, e se non ci sei abituato ti può prendere uno sbalzo di liquidi, come dice il dottore. Gli sbalzi di liquidi, facile dare la colpa a loro. Chissà come se la riderebbe Nynke, se fosse qui. Ma lei non c'è... non c'è più.
È la luce che ti frega. Sei, sette ore al giorno massimo, e poi il buio. La lunga notte del nord che ti divora dentro, mentre il vento incalza sulle imposte e la neve ottunde i rumori della valle. La TV ti riversa addosso le solite stupidaggini ma tu continui a guadarla speranzoso. Forse succederà qualcosa... forse il vento calerà e la neve incomincerà a sciogliersi. Lei ti chiede se ti va un caffè, la guardi sparire in cucina, bella ma distante per via del freddo. Non ti tira più l'uccello e non sai perché, se per via dell'inverno e degli sbalzi di liquidi, oppure per gli anni di stasi che si sono accumulati come la polvere sulla cornice della nostra prima foto insieme.
Osservo il rivolo di fumo che s'innalza dalla tazza del tè e guardo fuori, dove ancora uno strato intatto di una decina di centimetri di neve ricopre il tetto del garage. Anche per oggi è prevista una nevicata, tanto per cambiare. Il pick-up l'ho parcheggiato fuori, perché non avevo voglia di tirar su la porta-serranda, che ogni volta che ci provo mi si gelano le mani. Mi sarebbe piaciuto metterne uno elettrico. Gliel'ho confessato più volte alla piccola Nynke, e lei mi guardava con quei suoi occhi da cerbiatta e mi rispondeva “certo, perché no!”. Ma poi, tramortito da un nuovo attacco di apatia, lasciavo perdere. La scusa era quella di non spendere i soldi per la vacanza, e proprio di una vacanza avevo bisogno, Spagna, Grecia, un posto con il sole vero, non come questo qui che pare disegnato dietro un drappo di grigiore.
Non riesco a ricordarmi il motivo del litigio di ieri sera. La cosa mi mette agitazione, e pensare che finalmente ero riuscito a calmarmi. Che diavolo è successo? Si, certo, lo sbalzo di liquidi, ma quello è venuto dopo. La scintilla l'ha innescata lei, ne sono sicuro. Ma cos'era? Gli stivali pieni di neve sporca sul tappeto? La tazza del cesso alzata? No, forse era il tappo del succo di mango, che mi dimentico sempre di richiudere. Certo, è stato quello l'inizio di tutto. Dannato mango! Vabbè, ormai è andata...
Il gelo delle ossa si è dissolto nella carne, grazie al tè al gelsomino. Scaccio via dalla testa un pensiero irritante, la paura di non aver scavato una buca abbastanza profonda, poi mi metto a lavoro. C'è da pulire il sofà, le tende e il tappeto che piaceva tanto a Nynke, e rimettere nella cassetta degli utensili il cacciavite che le ho infilzato nella gola.

sabato 13 febbraio 2010

SEBASTIAN CLAW: La Fine



Il caffè è più forte del solito. La notte è stata lunga, ma ha dato i suoi frutti. Tornerò alla baia nel pomeriggio, per finire il lavoro.
La Spirale era chiamata. Il più influente ed aberrante agglomerato di individui che abbia mai messo piede a Providence, o per quello che ne so, in tutto lo stato. Provo ancora ribrezzo nel ricordare le cose che si muovevano sopra la spiaggia, mentre quel gruppo di scellerati si riuniva dentro le grotte, a salmodiare le parabole di un libro perverso. Ne succedono di cose strane a soli venti chilometri dalla città.
La notte nascondeva l’orrore. Le creature coprivano le stelle coi loro corpi gibbosi, assurda progenie di insetti e corvi, ed io non potevo continuare ad ingannare la mia sanità mentale. Ho alzato gli occhi quel tanto per non dormire più una sola notte.
Dopo aver rovesciato sulla sabbia i resti di una misera cena a base di tonno in scatola e bourbon, mi sono mosso velocemente oltre gli scogli. Dalla caverna fuoriusciva una luce malata, la stessa che vidi quella notte a casa del professore. Mi sembrano passati secoli.
Sapevo cosa stava succedendo là dentro. Sapevo del tentativo di traduzione di quel testo cinese. La Spirale era piena di musi gialli, ma non erano loro a comandare. C’era Sunshade, l’uomo con la frusta. Lo intravidi alla prima delle adunanze che si tenevano in città. Quasi certamente era lui la mente dietro tutta la combriccola. Poi c’era Amelia, sacerdotessa del senza nome. Si, proprio lui. Cosa credete che ci facessero più di cento illustri personaggi del New England in una grotta a venti chilometri da Providence, insieme a una mandria di cinesi e a dei corvinsetti giganti? Chiamavano lui, che non si potrebbe nominare. Hastur…
Il fascio di dinamite era avvolto nei giornali. Avevo paura che l’aria salmastra potesse compromettere l’effetto dell’esplosivo. L’entrata della grotta non era molto ampia. Il piano era quello di bloccarli là dentro; sepolti vivi. Neanche i loro amici corvi sarebbero riusciti a tirarli fuori, e senza di loro l’evocazione non sarebbe stata mai completa.
Ho piazzato il pacchetto un paio di metri oltre la soglia. Poi mi sono allontano quel tanto da rimanere incolume. Un colpo, un solo dannatissimo colpo. La mano era ferma, nonostante il whisky che mi girava nelle vene. Il dito sul grilletto. Un bacio di buon augurio alla canna del mio fedele shotgun., e poi… bang!
Devo tornare a finire il lavoro. Ve l’ho già detto. Devo accertarmi che non siano riusciti a scappare. Questo è il mio ultimo lavoro, e voglio che sia fatto bene.
Si, avete capito bene. Queste sono le ultime righe di Randy Coleman, ovvero Sebastian Claw. Non tornerò in questo maledetto monolocale, a passare le notti con gli occhi sbarrati, la boccia di whisky in una mano ed il fucile a canne mozze nell’altra. Basta.
È l’ora di farla finita.
Vi lascio alle follie di questo mondo. Ho cercato di ostacolarle, per quanto potevo. Ho venduto cara la pelle. Ho fatto assaggiare un po’ di sano piombo.
Adesso però voglio dormire.
Un ultima cosa…
…poi la spiaggia, il mare, l’abisso.
Addio.

OUTRO

È stato rinvenuto un corpo nella baia. Era il mio...
...o almeno così hanno creduto.
Che lo credano pure. La polizia, i miei vicini, le creature assurde che vagano libere per il New England, anche i lettori di questo folle diario. A me sta bene così. Io non mi lamento. Galleggio nell’acqua sporca nel mio
impermeabile grigio, ma tengo lo sguardo puntato verso il fondo... casomai qualcuno o qualcosa decidesse di
salire in superficie.
Ho sempre il mio fucile a canne mozze. Lo tengo stretto nella mano destra. Il rigor mortis può fare anche questo. Non ci credete? Allora vi svelerò un piccolo segreto: non è morto ciò che in eterno può attendere, e col passare di strani eoni, anche la morte muore. E questo vale per tutti, anche per i cacciatori di incubi come me.
Il mio nome è Sebastian Claw. Sono un cadavere che galleggia nella baia di Providance, e ho ancora del piombo da commissionare. Lo devo al professore, al povero Melvin, al vecchio Bob, e soprattutto a Randy Coleman.

Jonathan Macini - Da un idea del 1995 – Riveduto e corretto nel 2008

lunedì 1 febbraio 2010

SEBASTIAN CLAW: Bob

Le fronde degli alberi, i rumori della città, una quarantaquattro magnum sulla scrivania accanto a un letto d’ospedale, un vecchio che farnetica sotto le coperte, il fetore della follia che aleggia nella stanza. Immagini di una scenografia ammorbata, l’overture che annuncia l’entrata in scena di creature idiote, dimoranti negli abissi del cosmo.
«Bob, ti ho portato quello che mi hai chiesto…»
Per un istante lo sguardo del vecchio divenne lucido. Guardò prima me, poi la cosa sulla scrivania, un oggetto di freddo metallo che risucchiava la luce.
«Grazie Sebastian. Grazie!»
Uscito dalla clinica accesi una sigaretta…
… e udii lo sparo.

martedì 5 gennaio 2010

SEBASTIAN CLAW: La Sacerdotessa



Maria Luise Demond, conosciuta anche con il nome di Snake Charmer, alta sacerdotessa del tempio. Non che incantasse per davvero i serpenti, anche se forse per un po’ è riuscita ad incantare me. Solo per un po’…
L’ho conosciuta un mese fa alla casa di riposo Greendale House, nella periferia di Boston. Ricoveri e orfanotrofi sono i posti ideali per rifornirsi di carne sacrificabile a costi limitati. Gli inservienti si lasciano corrompere facilmente, e poi se scompare un vecchio oppure un orfano ormai non importa più a nessuno. Neanche i giornali ci stanno più dietro, con il crimine organizzato che dilaga in tutto il paese. Certo, per i bambini si fanno prezzi diversi, ma i sacrifici di carne immacolata sono rari, rituali riservati alle alte cariche. Per santificare le loro vomitevoli messe basta una vecchia carcassa.
Io ero lì e sapevo bene come andavano quelle cose. Per tre giorni ho bazzicato quell’edificio, un posticino delizioso immerso nel verde, una struttura moderna e ben accessoriata, che prometteva ai suoi inquilini una fine facile e decorosa. Vi abitavano una sessantina di anziani, la maggior parte dei quali ricordava poco o nulla della vita lasciata fuori da quelle mura. Ma c’era anche chi non la smetteva mai di parlare della propria infanzia, come se fosse appena trascorsa. La mente di un uomo è come una macchina difettosa! Se esistesse un dio, dovremo farci risarcire.
Greendale House è un mondo fuori dal mondo, una realtà fatta di brusii insensati, medicine e odori pungenti. Un pascolo di carne umana a basso costo. Mi sono finto il legale della signora Thomson, una simpatica vecchietta che ricordava a malapena il suo nome, Elvira. In realtà non dovevo fingere un bel niente. In un’altra vita e in un altro tempo sono stato uno dei tanti avvocati della Città degli Avvocati; Randy Coleman era il mio nome. Di sicuro non un esempio eccelso, ma durante i dieci anni e passa di attività sono riuscito a togliermi qualche bella soddisfazione. Il caso Newman, ad esempio. Quel bastardo se l’era vista davvero brutta. La sedia elettrica non gliela avrebbe tolta nessuno, se non avessi portato all’ultimo appello quel testimone chiave. Com’è che si chiamava? John qualcosa. Il figlio di puttana la sapeva lunga, e alla fine ha parlato. Sicuro che ha parlato…
Comunque, ormai è acqua passata. Come ho detto più di una volta, quella era una altra vita. Adesso esiste solo il signor Claw e il suo fedele fucile a canne mozze.
Maria Luise faceva finta come me. L’ho inquadrata subito. Il suo fare gentile, la spigliatezza un po’ troppo ostentata con i medici, lo zelante interesse per miss Rogue, la donnina sulla sedia a rotelle della quale si fingeva la nipote. Niente di tutto ciò mi è sfuggito. Era bella, ma di una bellezza blasfema. Non so in che altro modo descriverla. Occhi profondi, due pozzi che sembravano risucchiare la luce. Capelli neri, pettinati alla moda, e una bocca rossa come i gerani che adornavano le terrazze del ricovero.
Il terzo giorno la invitai a bere un tè in città. Lei accettò, ed incominciò così. Avrei potuto ucciderla quella notte stessa. Non avevo bisogno di prove per sapere chi era e cosa faceva. Mi era bastato uno sguardo per capirla. Nei suoi occhi dimorava l’assurdità del dio idiota. Azathot viene chiamano, il dimoratore del nulla. Per poco non mi ero perduto in quel suo subdolo gioco, fatto di parole dolci, di baci carnosi, un desiderio incontenibile che inghiotte il libero arbitrio.
Ma prendere solo la sua vita sarebbe stata una magra consolazione. Volevo accedere al tempio, eliminare i suoi discepoli, dare alle fiamme i luoghi appestati dalla sua insulsa religione. Così giocai il suo gioco, ma mi tenni da parte l’asso vincente.
Facevamo l’amore in un motel del centro. Ormai Boston era diventata la mia nuova casa. Il caos della grande città aiutava a distrarmi. Per un po’ mi è piaciuta, non lo nego, ma a cosa fatta non vedevo l’ora di tornarmene a Providence.
Il sesso con lei confermò i miei sospetti. Il modo in cui cercava il piacere, il muoversi silenzioso sopra di me, gli occhi spalancati nel momento catartico, colmi di una alienità disarmante, ed un sorriso famelico che metteva i brividi. Il ricordo del suo corpo perfetto nella penombra di quella camera d’albergo, la finestra aperta ed i suoni della città sotto di noi, lei che camminava sinuosa verso la toilette… immagini che continuano piacevolmente a tormentarmi. Afferrai la borsetta e… bingo! Conteneva una copia del Necronomicon, versione inglese di John Dee, rilegata pregevolmente a mano. La prova che confermava tutte le mie intuizioni. Tra le pagine pergamenate piene di simboli arcani e parole all’apparenza insensate, estrassi un biglietto. Indicava la data ed il luogo dove si sarebbe tenuta la prossima messa. Era l’invito che cercavo.
Le fiamme divorarono completamente quel magazzino del porto. Per la polizia è risultato impossibile identificare le decine di corpi carbonizzati recuperati al suo interno. I giornali hanno parlato di clandestini cinesi, di un paio di casse di tabacco secco andate a fuoco, di un tragico incidente. Gli agenti non hanno mai rivelato alla stampa la storia di Maria Luise, trovata riversa in una pozza di sangue a un centinaio di metri dal magazzino, perforata da due proiettili di shotgun esplosi a distanza ravvicinata.
Mentre la guardavo correre verso di me, allontanandosi dal fuoco che s’innalzava in alte fiamme alle sue spalle, accendendo la notte del porto, sono riuscito a scorgere per un istante il suo vero volto. Nei suoi occhi ho letto disperazione, incredulità, paura. È stato un attimo, ma non mi sono lasciato ingannare. La pietà è un sentimento che non mi appartiene più.
Addio Maria Luise. Aspettami all’inferno. Vedrai, non tarderò!

Jonathan Macini - 2008

mercoledì 9 dicembre 2009

SEBASTIAN CLAW: L’Evocazione

“Iah! SHUB-NIGGURATH!”
“Grande Capro Nero dei Boschi, io Ti chiamo!”
L’uomo con la veste gialla s’inginocchio davanti alle alte pietre. Le braci rosse gli illuminavano il volto.
“Rispondi al grido del tuo servo che conosce le parole del Potere!”
Con la mano compose un gesto.
“Sorgi, io Ti dico, dal Tuo sonno e vieni con altri mille!”
Un gesto ancora.
“Io faccio i Segni, io pronuncio le Parole che aprono la Porta!”
“Vieni, io Ti dico, io giro la Chiave, Ora! Cammina ancora una volta sulla Terra!”
Si avvicinò alle braci…
BANG!
Ma fu lo shotgun di Claw a chiudere l’evocazione.


101 parole – Jonathan Macini