giovedì 10 settembre 2009

UNA PARTITA A BILIARDO

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Chiusi gli occhi e le luci si accesero.
Mi trovavo in una sala da biliardo, dieci, dodici tavoli disposti in fila, pareti ricoperte di stecche, gessetti blu, lampade verdi sopra i teli, mattonelle marroni, sedie di formica, finestre su una strada buia. Era quella la sala d’attesa?
La stanza era pressoché deserta. C’era solo un giocatore, defilato al tavolo più distante; il numero dodici. Mi avvicinai col pensiero e un attimo dopo ero seduto di fronte a lui. Mirava la numero otto in una buca d’angolo. Attesi il colpo. Il silenzio era assordante. Toc! Con precisione la palla nera percorse tutto il tavolo depositandosi con dolcezza nella buca.
«Bel colpo!» mi venne di dire.
L’uomo, un tipo anonimo di mezz’età, vestito con un paio di jeans e una giacca scura, mi rivolse un sorriso.
«Te l’aspettavi, vero?» Aveva una voce roca, graffiata dal tabacco e dall’alcol.
«Cosa?»
«Che andasse a finire così. Buca d’angolo…»
«Che vuoi dire?» Ero confuso e non lo nascondevo.
«La tua vita. La numero otto, in buca d’angolo.»
«Vuoi dire che era lei?»
«Beh, hai rimbalzato un bel po’ prima di finire in buca. Alla fine ci finiscono tutte…»
«Ehi, ferma un attimo. Mi vuoi dire che siamo di là? Che alla fine il cancro l’ha avuta vinta?»
«Beh, questo lo dici tu. Forse può bastarti…» Si era messo a lavorare la stecca con il gessetto, ma continuava a guardarmi, da oltre la frangia che gli ricadeva sugli occhi.
«Ed io che credevo che avrei trovato delle risposte…»
«Ehi uomo, non ti preoccupare. Non sei il primo che pensa di trovare delle risposte da questa parte. Qui si gioca solo a biliardo. Ti va di fare una partita?»
Che altro potevo fare. Avevo l’eternità davanti. Mi alzai e afferrai una stecca.
«A cosa giochiamo?»
«A Destino. Lo conosci?»
«No.»
«La vedi la numero quindici, laggiù?»
«Si…»
«Tua figlia Giulia. Se la butti in buca è salva, altrimenti… dopo tocca a me.»
Mi regalò un sorriso di cui avrei fatto volentieri a meno.
E così mi ero ritrovato a giocare al Destino insieme al braccio destro del Caso. Non potevo farcela, era una partita impari, uno scherzo di cattivo gusto. Se solo…
E appena lo pensai, apparve. Un bicchiere di scotch sul bordo del tavolo da gioco. Ecco quello che mi ci voleva… Lo buttai giù d’un fiato e preparai il colpo.
«Ordina pure quello che vuoi. Va tutto sul mio conto…» disse il tipo col ciuffo, continuando a sorridere.
Non lo guardai. Non guardai nemmeno la palla, o la stecca, o la buca. Chiamai il colpo pensando alla piccola Giulia, quando aveva solo tre anni, e si buttava dallo scivolo a testa in giù, e le dicevo di stare attenta, ma poi lei mi sorrideva e non potevo resisterle. La biglia battente descrisse una retta attraverso il tavolo verde, sfiorò appena la numero quindici vicina alla buca laterale, la palla bianca e bordeaux ruzzolò con sicurezza dentro la cavità. La piccola Giulia era salva, almeno per il momento…
«Bel colpo» ammise il mio compagno di gioco.
«Cosa mi aspetta, adesso?»
«Ancora domande? Te l’ho già detto, qui non troverai risposte. In verità ti dico che di risposte non ci sono, da nessuna parte. Né nella sala dei biliardi, né giù al bar, né tanto meno in strada…»
In quel momento sentii transitare un’auto, vidi le luci degli abbaglianti scorrere sul palazzo di fronte, mi avvicinai alla finestra e guardai giù. Ma l’auto era già passata. Fuori pioveva, e i lampioni illuminavano le pozze. Il silenzio era straziante.
«Beh, dici che non esistono risposte, ma tu sei già una risposta. Giochi a biliardo con le vite degli uomini, è un fatto no?»
«Scusami se mi ripeto, ma questo lo dici sempre tu. Ci credi solo perché te l’ho detto? La numero sei, quella verde. Lo sai chi è?»
Poteva essere un sogno? Non avevo mai sentito che il cancro ti prendesse così, di punto in bianco, sul divano mentre guardi la TV spenta e cerchi di farti una ragione di quello che ti sta per succedere. La morte, l’amore, il tempo, il senso di tutto… Mi aggrappai all’idea del sogno e continuai a giocare.
«Che diavolo vuoi da me?» urlai. Ma in quell’intercapedine onirica, l’urlo diventò un sussurro.
«La sei è tuo padre. Proprio lui, il vecchio ubriacone, quello che non è neanche venuto a vedere la sua nipotina, quello che non si è fatto sentire per più di dieci anni, quello che metteva mano alla cintura volentieri, quando ne combinavi una grossa… La numero sei, dai su… Non è difficile… Un colpo secco ed è salvo. Ah, dimenticavo, puoi sempre decidere di passare il turno…»
Il suo sorriso era diventato un ghigno. Sul bordo del tavolo apparve un secondo bicchiere. Lo afferrai con decisione, lo alzai e proposi un brindisi. “A te, padre… ti ho già perdonato così tante volte che non me ne frega più niente, ormai…”
Già, proprio un colpo secco ci voleva, e la sei fu fuori dal gioco. Ne rimanevano troppe, però…
«Quanto deve andare avanti questa storia?»
«Non ti stai divertendo?»
«No!»
«Io invece si. Quella gialla, la uno. Quella è tua moglie. Vogliamo provare a buttarla dentro?»
Per me poteva bastare. Cercai l’interruttore dei sogni, avete presente? È un po’ come allungare una mano nel buio della cantina, e mentre senti il tocco delle ragnatele ti auguri che il ragno non s’incazzi e ti venga a fare un salutino. Ma niente interruttore, questa volta. Cavoli, forse ero morto per davvero. Maledetto…
Il colpo era difficile stavolta. La uno era coperta da altre due palle. Avrei potuto mirare alla sette, per farla carambolare sulla gialla. Un colpo estremamente complesso, ed io non sono mai stato un granché come giocatore. L’alternativa era mettere fuori gioco il mio avversario, nascondendogli la biglia dietro altre palle. Ma potevo fidarmi di lui? Chissà di cosa era capace…
«Puoi passare, se vuoi…» incalzò il braccio destro del Caso. Non gli badai e preparai il colpo.
Pensai al giorno in cui la conobbi, alle cretinate che feci per farmi notare, a come mi guardava storta, ridendo al tempo stesso, alla vacanza in Grecia e all’amore sugli scogli, ai litigi e alle passioni, all’ultimo sforzo, dopo ore di travaglio, che segnò la nascita di nostra figlia, e a tutte le volte che avevo bisogno di una carezza e c’era lei. Pensai a tutto questo chiudendo gli occhi, poi li riaprii e colpii, sicuro, con forza, dritto verso la biglia bordeaux. Stoc… toc… toc… la uno in buca d’angolo… salva… e la bianca in buca laterale…»
«Peccato…» sospirò il mio avversario.
Riaprii gli occhi e le luci si spensero. La TV era morta ma il led in alto mi diceva che erano quasi le due. Al piano di sopra il miei due gioielli respiravano piano, e sognavano di volare. O almeno me lo auguravo…
Una fitta allo stomaco. La solita fitta, quella che mi tormenta ormai da settimane. Domani iniziamo la chemio, poi si vedrà.
Volete sapere cosa penso?
Non penso niente. Le Grandi Risposte non m’interessano. Continuerò a pormi domande fino alla fine, e cercherò di rispondermi in sincerità, anche se dovrò contraddirmi. Lo facciamo tutti, no? È cosi che passiamo ogni singolo istante delle nostre esistenze.
Ma ho smesso di credere al bianco e al nero, a dio e al diavolo, al male e al bene. In questo momento, solo di una cosa sono certo: se vuoi morire tranquillo, impara a tirare di stecca!

GM Willo - 2009

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