venerdì 11 settembre 2009

L'ORRIDO PERSECUTORE



Il suo nome è Victoria. Piccola, mora, trucco vistoso, look darkeggiante, ma con un’aria da Lolita. Giriamo a vuoto per le vie del centro, con l’autoradio che pompa un misto di techno e acid. Sono le cinque del mattino e presto la città vivrà. Per allora tutto sarà finito.
«Me lo fai un pompino?» le chiedo.
Lei è completamente andata. Un mix esaltante di exstasy e anfe, condito con un paio di mojiti fatti con cura, l’ha trasformata in un’ameba vestita di nero. Mi sorride con denti candidi. Ci siamo conosciuti due ore fa, e un pompino mi sembra un ottimo pretesto per chiudere la serata in bellezza.
Non mi risponde. Si avventa sulla lampo dei miei jeans ed io faccio appena in tempo a scartare di lato, evitando un cassonetto dell’immondizia. Mentre riprendo il controllo della Golf, la sento sogghignare divertita. La troietta non sa cosa le aspetta.
Comunque tutto sta andando come previsto. Lei me lo succhia, io faccio fatica a rimanere duro e nel frattempo lasciamo la città. I semafori sono tutti spenti. Cinque minuti dopo sono già sulla statale che sale verso le colline. Victoria mi si è addormentata sull’uccello. Poco male. L’importante è che si stia distraendo.
Imbocco lo sterrato che si addentra nel bosco. Lo conosco bene. Ci sono stato nel pomeriggio per fare i preparativi. Sento Victoria che si risveglia. Non protesta, forse si sente in colpa, così si rimette subito a lavoro. Non è male, anche se lenta nei riflessi. Ma c’è da capirla, con tutta la roba che le circola in corpo…
Finalmente la sento irrigidirsi. Nonostante la musica a palla, i sobbalzi della Golf dovuti alla strada non lastricata sono fin troppo riconoscibili. Si alza e si accorge subito che c’è qualcosa che non và. Piccola, dolcissima, con quel musino da bambina, un filo di bava che le penzola dal labbro, gli occhi lucidi come due laghi di notte. L’oscurità del bosco ci sovrasta. Io le rivolgo un sorriso rassicurante, ma sono pronto a scattare. Victoria non sa come reagire, non si capacita. Mugugna un debole: «Ma dove cazzo siamo?», poi le afferro la nuca e le sbatacchio la testa sul cruscotto. Una, due, tre volte. Il cruscotto è di plastica dura; non dovrebbe farle molto male. La rilascio indietro e lei crolla sul sedile con una chiazza rossastra dipinta sulla fronte. Spengo la musica. Non ce n’è più bisogno.
Raggiungo finalmente la radura, una piazzola di erbacce e arbusti circondata da faggi e querce. I fari dell’auto trafiggono le tenebre solide di una notte senza luna, ma devo spegnerli e fidarmi del mio istinto per portare avanti il rituale. Lui non ama la luce…
I segni sono dipinti con del gesso bianco e rosso. Li vedo riverberare al tenue bagliore delle stelle. Esco dalla Golf e vado ad aprire la portiera del passeggero. Il gracile corpo della bimba, ancora privo di sensi, si rovescia fuori dall’abitacolo. La sento respirare, mugolare. È viva. Menomale.
La sollevo facilmente, sarà si e no cinquanta chili. Dolcemente la distendo sull’erba, all’interno del cerchio rosso. Le discosto una ciocca di capelli che le è ricaduta sul volto, quel volto da Lolita marcato da troppo makeup. La chiazza rossa sulla fronte si distingue appena nelle tenebre del bosco. Lui non ci farà caso.
Io mi posiziono dentro l’altro cerchio, quello di protezione. Non posso perdere altro tempo perché presto albeggerà, e allora Lui si rifiuterà di venire. Trovo la concentrazione necessaria per rievocare le parole, quelle imparate a memoria la sera prima davanti al mio laptop. Litanie ancestrali trasformate in catene di impulsi binari. Poco importa alla fine. Sono finiti i tempi dei tomi antichi e delle pergamene. Il messaggio dei Grandi Antichi viaggia rapido nei sotterranei della rete.
Io, solitario nel grembo del bosco, sotto una volta di stelle che mi guardano come le orbite idiote di creature aliene, scandisco ogni sillaba della canzone. Il corpo di Victoria diventa il dono, il pretesto, il mezzo. Eccolo che arriva. Un verme deforme, lungo quasi dodici metri, dotato di oscene ali di pipistrello. Un’ombra nel cielo stellato che si dimena gonfiandosi, e vibrando discende. Si ferma proprio sopra la ragazza, librandosi nella sua folle brama di essere reale, creatura impossibile che diventa la testimonianza di un assurdo disegno. La trama del Caos Strisciante.
«Eccomi, uomo. Quale compito mi spetta?» la sua voce dilania il vero. È dura, senziente, asciutta, insopportabile. Io faccio fatica rimanere in piedi, ma l’evocazione è ormai compiuta. Devo andare avanti. Chiedere il favore.
Non conosco il bastardo che è riuscito ad accedere al mio deck. Forse è solo un ragazzino un po’ curioso. Potrebbe trovarsi dall’altra parte del mondo, ma quello non è assolutamente un problema per il mio amico vermiforme. Non conosco neanche il suo nome, e sono sicuro che l’IP che sono riuscito a intercettare sia falso. Ma anche questo non è un problema. All’orrido persecutore basta un riferimento, ed il suo nickname è più che sufficiente. L’intuizione di una creatura come quella trascende il pensiero umano. Egli esiste per perseguire, dentro incubi tutt’altro che onirici.
Gli rivelo l’identità del suo obbiettivo. Lui come risposta emette un orribile mugolio. Poi si avventa sulla ragazza. Il suo corpo gibboso di verme si attorciglia alle sue gracili membra. Victoria in quell’istante si sveglia, sbarra gli occhi e precipita in una voragine di follia. Urla, ma il suo urlo le muore a metà. Il verme sbatte le sue ali di pipistrello, e in un attimo è risucchiato nel cielo scuro, sagoma indistinta tra le stelle.
Rimango da solo nel silenzio della foresta. Continuo a tremare per lo sforzo mentale richiesto dall’evocazione. Lentamente recupero forza e autocontrollo. Intanto ad est il cielo incomincia a rischiararsi. La notte è finita, insieme all’incubo della piccola Victoria. Tra poco incomincerà quello dell’hacker irriverente, che ha visto cose che non doveva vedere. Puoi anche conoscere i tasti giusti, ma prima di premerli è bene che tu sappia che cosa stai facendo.
Altrimenti gli incubi verranno. E come se verranno…

Jonathan Macini - 2008

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