Ieri notte sono tornato a casa del professore. Ero ubriaco, e ricordo appena quello che è accaduto. Cercherò di raccontarvelo, prima che l’oblio cali inevitabilmente sui mie ricordi (ancora molto confusi), ed il sogno si mischi con la realtà. Ormai non credo più a nulla, ed anche le vittime di questo shotgun sono diventate una magra consolazione. Ho ucciso di nuovo, ho ucciso qualcosa che solo con molta fantasia potreste considerare vivo, eppure gli incubi sono venuti lo stesso, più orribili che mai.
Ho fermato la macchina nel solito piazzale. Mancava poco al tramonto. Il cielo era grigio e il mondo incolore. La villetta era immersa nel silenzio e nell’ombra. Ricordavo bene quella luce che avevo visto mesi prima, quel suono orripilante di flauti e tamburi. Niente di ciò disturbava adesso quel pacifico panorama rurale. Mi sono acceso una sigaretta. Sapevo che era una scusa per guadagnare tempo. Guardavo la finestra del piano di sopra, le persiane spalancate, le tende tirate. Un occhio su un pianeta alieno. La sigaretta era arrivata alla fine. Che fare? Riaccendere il motore, girare l’auto e tornare a casa. Si, era quello che desideravo più di ogni altra cosa. Eppure sapevo in cuor mio che se non avessi fatto quello che mi ero premesso di fare, non sarei riuscito a dormire un’altra notte.
Sono sceso, ho gettato il mozzicone nella ghiaia del piazzale, due corvi spaventati sono volati via, oltre il tetto della villetta. Ho caricato il fucile e ho coperto lentamente la distanza che mi separava dall’ingresso, una ventina di passi, non di più. Superato il cartello di vendita affisso dall’agenzia immobiliare mi è sfuggito un sorriso. Chi poteva essere così pazzo da andare ad abitare in un posto del genere? Ma forse erano le mie fantasie, o la mia consapevolezza, a trasfigurare quella graziosa villetta di provincia, che aveva saturato le mie notti, preso possesso dei miei sogni, trasformato la mia vita. Per questo ne provavo orrore. Forse a una persona normale sarebbe piaciuta… Eppure erano passati tre mesi, e quel cartello stava ancora lì.
La porta era chiusa a mandata. Le persiane del piano terra erano tutte sbarrate. Rimaneva solo l’ingresso sul retro. Con lo shotgun ben puntato davanti a me, mi sono portato sul retro dell’edificio. Il portico posteriore di affacciava su uno sconfinato campo d’erba’erba alta che si perdeva in un declivio verso la città. Le luci di Providence incominciavano ad accendersi. Anche la porta sul retro era chiusa a chiave, ma un proiettile a bruciapelo avrebbe fatto saltare in aria il chiavistello. Esplodere un colpo in collina avrebbe insospettito qualcuno, anche se la casa più vicina era a un quarto di miglio, così ho avvolto la canna del fucile nel cuscino di una sedia a dondolo dimenticata nell’angolo della veranda. Ho fatto fuoco, spargendo piume e schegge di legno un po’ dappertutto. Un attimo dopo ero dentro la cucina, un luogo ordinato ma ricoperto da un denso strato di polvere. Un odore da voltastomaco mi ha investito. Difficile descriverlo. Dolce e avariato, marcio e pungente. Nel silenzio assordante della villetta, una sensazione assurda ma inequivocabile si è impossessata delle mie membra, paralizzandomi dalla testa ai piedi. Nella casa viveva qualcosa.
Dietro infiniti veli di grigio il sole stava tuffandosi oltre l’orizzonte. Non potevo farmi sorprendere dalle tenebre, non con quella cosa che si aggirava là dentro. Per fortuna mi ero portato dietro la mia medicina. Ho appoggiato il fucile sul tavole ed afferrato la fiaschetta dalla tasca interna della giacca. Il whisky di contrabbando non è un granché ma fa il suo dovere. Un lungo sorso e le membra si sono sciolte, un altro sorso ed ero pronto a salire di sopra.
Non ce n’è stato bisogno. Riafferrato lo shotgun, ho attraversato la porta della cucina che dava su un corridoio. A destra si apriva il salotto, a sinistra la libreria, più avanti l’atrio e la rampa di scale. La poca luce esterna filtrava dalle persiane, ma era impotente di fronte all’oscurità che albergava da mesi dentro la casa. I miei occhi facevano fatica ad abituarsi. L’impianto elettrico era staccato. L’unico riverbero che mi aiutava a procedere senza andare a sbattere addosso a qualcosa era quello che proveniva dietro di me dalla cucina. Il bisogno di un altro goccetto mi ha fatto fermare. In quel momento ho avvertito lo strascichio. Veniva da sopra, lento, appiccicoso, grondante, umido. Un rumore di vischiosità viva.
In quel momento qualcosa è scattato dentro me. Ricordo solo brandelli dei minuti successivi. I passi lenti ed esitanti verso la rampa di scale, il rumore viscido che avanzava, i contorni vaghi di una creatura deforme che scendeva i gradini, e poi il terrore. Dopo il colpo sparato nel porticato mi ero completamente dimenticato di ricaricare lo shotgun. Freneticamente ho afferrato due proiettili dalla tasca, ma riuscire ad inserirli nel caricatore con le mani che mi tremavano non è stato facile. La creatura stava avanzando verso di me molto più velocemente di quanto pensassi. Non avevo coraggio di guardare. Ho chiuso il caricatore e ho mirato alla cieca, seguendo un istinto tutto mio. Un boato inatteso è esploso nell’ampio ingresso della villetta. Non era finita, non per me. Altri due colpi. Bang! Bang! Ma ho continuato a guardarmi le scarpe mentre sparavo, incapace di soffermarmi su quell’essere che non sarebbe dovuto esistere.
I colpi erano finiti. I bozzoli giacevano sul pavimento. Dieci, dodici. Non so. Il rumore vischioso continuava, ma era diverso. La creatura non si muoveva. Come prova poteva bastarmi. Non volevo assicurarmi di niente. Non volevo guardare. Sono corso fuori, ed è tutto quello che ricordo. Non so come sono riuscito ad arrivare all’auto, ad accendere il motore e fare manovra. Percorrere le strade ormai buie di Providence sembrava un sogno nel sogno. Per un attimo la sensazione di normalità mi ha sedotto. Avrei voluto abbandonarmici, ma come potevo continuare ad ingannarmi.
Nessuna speranza per chi conosce la verità. Nessuna speranza.
Jonathan Macini 2008
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