sabato 28 agosto 2010

VELDULE MISTE E LISO

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La città é una maschera grigia di nebbia. Copre ogni cosa col suo silenzio. Sembra dormire la città, sotto una soffice coltre. Ma la città non dorme mai, nemmeno alle quattro del mattino, in quelle nottate invernali lunghe e gelide. Neanche i gatti per i vicoli, i semafori lampeggiano d’arancio, un neon rotto e una sirena in lontananza. La città è immobile, ma respira ancora, come un vecchio randagio che chiede l’elemosina alla stazione, una serpe in agguato, un felino pronto a scattare. La città diventa pericolosa quando dorme. La abitano strane creature, animali della notte, girano nascosti nelle ombre, vergognandosi delle proprie deturpazioni, quelle dell’anima s’intende.
Poi ci sono quelli come me, che osservano, che aspettano, che fumano. Un’altra sigaretta, mentre l’orologio segna le quattro e diciannove. Il posacenere dell’auto ne è ricolmo. Guardo oltre la carreggiata, il vicolo buio, quello sul retro del ristorante cinese. Distinguo appena le sagome di Chon e del suo scagnozzo… grembiuli e cappelli da cuochi. Aspettano le provviste.
Il ragazzo è appena stato assunto alla pasticceria all’angolo della strada. Ha solamente diciassette anni e dovrebbe andare a scuola, ma sono tempi difficili, e poi il padre è disoccupato da quasi due anni. Passeggia ad ampie falcate sul marciapiede opposto. Lo vedo approssimarsi al vicolo, quello di Chon. Che sia lui il piatto giorno? Meglio non farsi sorprendere…
Scendo dall’auto e divento un’ombra sgusciante che attraversa la strada, raggiungo il lato opposto e mi fermo dietro una vettura parcheggiata a ridosso del vicolo. Nessuno mi nota, e ringrazio la nebbia, sempre lei, sorella e puttana di questa assurda città. La città dormiente. La città sognate. La città in balia del suo prossimo incubo.
Il ragazzo è risucchiato dentro al vicolo con una rapidità impressionante. Faccio fatica a distinguere i movimenti, ma risaltano all’occhio le lame dei coltelli da cucina. Un urlo strozzato e tutto è finito. A questo punto entro in gioco io.
«Quanti involtini pensi di farci, Chon?»
L’automatica è ben in vista e punta direttamente alla faccia gialla del cuoco.
Il chinaman sbraita nella sua lingua, lo scagnozzo mi guarda con il terrore negli occhi, poi afferra la vittima e la trascina dentro le oscurità del vicolo.
«Quanto vuoi, sbillo meldoso?»
«Beh, per te farò un buon prezzo. Tre testoni e tengo la bocca chiusa.»
«Bastaldo!» impreca il cuoco. Poi estrae dalla tasca un mazzetto di banconote e me ne allunga sei di quelle grandi.
«É un piacere fare affari con te, chinaman!»
«Non posso dile attlettanto…» sbuffa lui.
Sto quasi per andarmene quando mi viene in mente di chiedergli una cosa.
«Com’è che lo cucini?»
«Con veldule miste e liso…»
«Buono… lasciamene da parte un piatto, mi raccomando!»
Ve lo dicevo che erano tempi difficili.

domenica 1 agosto 2010

IL LUNGO INVERNO



di Jonathan Macini

Sorseggio distrattamente un tè al gelsomino addolcito con una punta di miele d'acacia, per ammazzare il freddo che mi si è infilato nelle ossa. Sono rientrato in casa da poco. È mattina presto ed in veranda ho dato di sfuggita un'occhiata al termometro, che anche oggi se ne rimarrà abbondantemente sotto lo zero. L'inverno non ne vuole sapere di finire. L'inverno al nord è troppo lungo, e se non ci sei abituato ti può prendere uno sbalzo di liquidi, come dice il dottore. Gli sbalzi di liquidi, facile dare la colpa a loro. Chissà come se la riderebbe Nynke, se fosse qui. Ma lei non c'è... non c'è più.
È la luce che ti frega. Sei, sette ore al giorno massimo, e poi il buio. La lunga notte del nord che ti divora dentro, mentre il vento incalza sulle imposte e la neve ottunde i rumori della valle. La TV ti riversa addosso le solite stupidaggini ma tu continui a guadarla speranzoso. Forse succederà qualcosa... forse il vento calerà e la neve incomincerà a sciogliersi. Lei ti chiede se ti va un caffè, la guardi sparire in cucina, bella ma distante per via del freddo. Non ti tira più l'uccello e non sai perché, se per via dell'inverno e degli sbalzi di liquidi, oppure per gli anni di stasi che si sono accumulati come la polvere sulla cornice della nostra prima foto insieme.
Osservo il rivolo di fumo che s'innalza dalla tazza del tè e guardo fuori, dove ancora uno strato intatto di una decina di centimetri di neve ricopre il tetto del garage. Anche per oggi è prevista una nevicata, tanto per cambiare. Il pick-up l'ho parcheggiato fuori, perché non avevo voglia di tirar su la porta-serranda, che ogni volta che ci provo mi si gelano le mani. Mi sarebbe piaciuto metterne uno elettrico. Gliel'ho confessato più volte alla piccola Nynke, e lei mi guardava con quei suoi occhi da cerbiatta e mi rispondeva “certo, perché no!”. Ma poi, tramortito da un nuovo attacco di apatia, lasciavo perdere. La scusa era quella di non spendere i soldi per la vacanza, e proprio di una vacanza avevo bisogno, Spagna, Grecia, un posto con il sole vero, non come questo qui che pare disegnato dietro un drappo di grigiore.
Non riesco a ricordarmi il motivo del litigio di ieri sera. La cosa mi mette agitazione, e pensare che finalmente ero riuscito a calmarmi. Che diavolo è successo? Si, certo, lo sbalzo di liquidi, ma quello è venuto dopo. La scintilla l'ha innescata lei, ne sono sicuro. Ma cos'era? Gli stivali pieni di neve sporca sul tappeto? La tazza del cesso alzata? No, forse era il tappo del succo di mango, che mi dimentico sempre di richiudere. Certo, è stato quello l'inizio di tutto. Dannato mango! Vabbè, ormai è andata...
Il gelo delle ossa si è dissolto nella carne, grazie al tè al gelsomino. Scaccio via dalla testa un pensiero irritante, la paura di non aver scavato una buca abbastanza profonda, poi mi metto a lavoro. C'è da pulire il sofà, le tende e il tappeto che piaceva tanto a Nynke, e rimettere nella cassetta degli utensili il cacciavite che le ho infilzato nella gola.